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venerdì 24 aprile 2015

La tragedia ilare della Resistenza

“Il partigiano Johnny”, il romanzone che Fenoglio non si decideva a licenziare e Gabriele Pedullà ha pubblicato l’anno scorso, 500 pagine, “celebrava” la Resistenza, seppure sempre con occhio limpido. “Il libro di Johnny” ora, 800 pagine, consacra la saga del combattente poi resistente, di Roma e delle Langhe, dei garibaldini e dei badogliani (non) uniti nella lotta, dei romantici e degli avventurieri, riprendendo, per la cura sempre di Pedullà, il “progetto” iniziale del ciclo della Resistenza, poi frammentato in varie pubblicazioni, o abbandonato. Ma la narrazione più viva, in termini di testimonianza, della Resistenza di Fenoglio è in questa prima raccolta di racconti. Che, come sempre per questo scrittore, si fece tra continui cambiamenti, sette anni dopo i fatti, di scritture e riscritture.
Presentando “Il libro di Johnny” Pedullà suggerisce di leggere questi racconti come una “satira eroicomica” – in senso etimologico evidentemente: non cattiva ma piena di cose. Come la Resistenza è stata: una ilaro-tragedia. Un’esperienza multipla, di spensieratezza, paure, (dis-)organizzazione, disciplina e indisciplina, morte, debolezze, tradimenti, rivissuta cioè in chiave personale, senza le coordinate storico-politiche. Che tuttavia fu decisiva anche per i grandi disegni, i destini, la patria.
Questa Resistenza di Fenoglio si meritò l’interesse di Calvino e Vittorini, ma non senza dubbi e censure. Vittorini, che ne fu l’editore-redattore sollecito, presentò la raccolta in termini molto convinti. Come “racconti pieni di fatti”, quali sono, e di “penetrazione psicologica tutta oggettiva”. Di un esordiente che diceva “asciutto, esatto”. Con “un gusto barbarico che persiste come gusto di vita”, ma con “un temperamento di narratore crudo ma senza ostentazione, senza compiacenze di stile”.
Da americanista emerito, Vittorini era il più indicato ad apprezzare Fenoglio. Salvo rimangiarsi l’apprezzamento due anni dopo: pubblicò “La malora”, tentativo di romanzo non resistenziale, borghese, dicendolo “forse più bello” del primo, ma acculando Fenoglio al piccolo provincialismo. Ai “provinciali del naturalismo, i Faldella, i Remiglio Zena: con gli «spaccati», e le «fette»” della vita, con lo stesso “modo artificiosamente spigliato in cui si esprimevano a furia di afrodisiaci dialettali”. Lo stesso “più bello” intendendo in senso evidentemente antifrastico.
Era successo che “L’Unità” aveva stroncato Fenoglio. “L’Unità” di Milano, che Davide Lajolo dirigeva,  un Pci puro e duro, nonché langarolo che si voleva anche lui narratore, in concorrenza coi conterranei Pavese e Fenoglio. “L’Unità” di Lajolo aveva stroncato la scrittura e l’onestà dell’esordiente. Con un monito agli editori, come il Pci usava: “Pubblicare e diffondere questo tipo di letteratura significa non soltanto falsare la realtà, significa sovvertire i valori umani distruggere quel senso di dirittura e onestà morale di cui la tradizione letteraria può farsi vanto”.
Vittorini non si era sottratto. È per questo che la storia della Resistenza ancora si deve fare, dopo settant’anni: troppe incrostazioni, troppi non detti. E non più per paura o conformismo, il Pci non c’è più. È che nella Resistenza c’erano veleni, che tre generazioni dopo ancora sono attivi.
Beppe Fenoglio, I ventitre giorni della città di Alba

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