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domenica 12 febbraio 2017

Lo Stato-Mafia parte dall'unità

Il mafia-Stato parte in Sicilia da lontano. “I mafiosi”, che se ne fa il nucleo drammatico, risale al 1964 o 1965. Ed è, dice Sciascia, “un rifacimento” – ancorché “radicale… e, in quella che si suol dire la morale della favola, un rovesciamento” – dei “Mafiusi della Vicaria”, del carcere palermitano, di Rizzotto e Mosca, “rappresentata a Palermo nel 1863 e da allora nel repertorio di tutte le compagnie dialettali siciliane”.
Anche le tasse della chiesa, che la chiesa non vuole pagare, sono argomento vecchio. La “controversia liparitana” fu sette anni di liti, scomuniche e interdetti in Sicilia tra la chiesa e il governo spagnolo prima, poi sabaudo, poi di nuovo spagnolo, a partire dal 1711, sul pagamento della tasse. E una sorta di anticipazione del conflitto poi sanguinoso, un secolo dopo, tra sanfedisti e borghesi.
Parte da lontano pure la politica: la politica “siciliana”, corruttrice e corrotta. “L’onorevole” è un bravo professore di latino e greco che cede alla lusinga della Dc nel 1948 e cambia natura.
Il teatro di Sciascia, che non si mette in scena e di cui non si pubblica più la vecchia (1976) raccolta Einaudi, l’unica parte di Sciascia fuori catalogo, è un teatro del pessimismo. Che, come tutto in Sciascia, si presenta come una ricerca della ragione, un’evidenza della ragione, l’amore della ragione. Ma senza fede. Per un atto di orgoglio più che ragionato.
La pièce più complessa, la “Recitazione della controversia liparitana”, del1969, è dedicata a A.D., Alexandr Dubcek, come un atto di rassegnazione. Dubcek è da tempo sconfitto, l’invasione della Cecoslovacchia c’è già stata da un anno. Sciascia apre con una citazione di san Luca, di Pascal che cita san Luca: “Voi non siate come loro”. Ma i “borghesi” o illuminati la concludono dicendosi sconfitti “a opera di aristocrazia, plebe e uomini di lettere”. Che non sembrano pochi. Dopo aver condotto una “battaglia di libertà” piuttosto che di giustizia, volendosi intromettere nella gestione ecclesiastica, sull’onda dell’ultramontanismo laico, piuttosto che di giustizia fiscale e sociale. Effetto forse non voluto della “Recitazione” – o allora pietra d’inciampo per una sua diversa lettura  – è la rappresentazione, nel finale, della fede che supera ogni razioncinio. Ridotta in superficie a mero esercizio anticlericale, di una fede cioè ridotta a superstizione e scongiuto. Di fatto professata dagli stessi grandi futuri borghesi.
Due aneddoti, due articoli di giornale, la prima e l’ultima pièce, anzi due note a margine, fatta la tara dello sdegno. La “Recitazione” ha lo spessore della storia negletta, del recupero. Sciascia la correda della cronaca contemporanea ai fatti del canonico Antonino Mungitore, uno storico che si era schierato con i “curialisti”, i fautori dei vescovi e del papa, ma più che altro sembra sorpreso dal rigonfiamento smisurato della questione. E così è, anche la “controversia liparitana” è paradigmatica, della “sicilitudine”: dove altro poteva montare, fino alla violenza, se non in Sicilia?
“I mafiosi” ha avuto una rappresentazione, al Piccolo di Milano, nel 1965, come contributo allo spostamento della questione meridionale dall’economia al crimine. Una motivazione oggi scontata. È vero che giudici siciliani oggi vedono la mafia dappertutto, in Calabria, a Roma e a Milano, in Sicilia ne trovano poca. E che la questione meridionale è la questione dei Carabinieri. Ma i cronisti giudiziari lo dicono meglio.
Leonardo Sciascia, L’onorevole. Recitazione della controversia liparitana. I mafiosi

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