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sabato 11 marzo 2017

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (319)

Giuseppe Leuzzi

Da quattro anni almeno la Cina fa passare le sue esportazioni di scarpe e abbigliamento da Londra perché lì l’ingresso nella Ue non coste niente, centesimi – meno di un euro di dazio per un kg. di capi d’abbigliamento, contro i 18 della dogana italiana. Nel 2016 quattro quinti delle importazioni europee di scarpe e abbigliamento dalla Cina sono transitati per Londra. Dopodiché, affrancate, hanno potuto girare sottocosto per tutta Europa.
La cosa si viene a sapere perché la Commissione di Bruxelles, vendicativa dopo la Brexit, multa Londra per due miliardi di euro. A leggere i giornali italiani tutti questi anni, specie i milanesi, le merci cinesi invece entravano di straforo in Europa transitando per Gioia Tauro. Per nessun’altra ragione che Gioia Tauro, il più grande scalo del Mediterraneo, è in Calabria.

Dopo aver visto “Ladri di biciclette”, quindi siamo nel 1948, Mario Soldati scrisse la sua ammirazione a De Sica (la lettera è pubblicata da Angelo Varni sulla “Domenica” del “Sole 24 Ore”): “Tu «albeggi». Noi (tutti noi registi italiani) «tramontiamo»… Un popolo sorge. Un popolo dell’Italia Centro meridionale. E un popolo tramonta: la borghesia dell’Italia settentrionale”.
Non è andata così. Il “popolo dell’Italia Centro meridionale” si è adagiato nella sfiducia e il vittimismo: emigrazione, odio-di-sé. E la “borghesia dell’Italia settentrionale” ha reagito, eccome, e non  molla nemmeno l’osso del cane. Ma quella di Soldati non era un auspicio, era una constatazione, mesta.

“Nessun italiano può dirsi estraneo a Napoli”, intima Aldo Cazzullo dal “Corriere della sera”. Un meridionale obietterebbe.

La corazza “Padrino”
Cè un libro che ha fatto, fa, la metà dell’immagine italiana nel mondo, e quella tutta di Corleone, da cui il protagonista ha preso il nome, e della Sicilia. C’è un Sud di prima del “Padrino” e di dopo.
Alla rilettura, “Il padrino” non è credibile. Contro Hollywood, per esempio, dove non ci sono che puttane dipinte, e contro Frank Sinatra – un buon quarto del libro. Prolisso, anche noioso. E ambiguo. Il “pezzo novanta”, come lo chiama Puzo, il mammasantissima che Marlon Brando immortalerà, è una vittima della mafia, da bambino della violenza mafiosa al suo paese, di cui il padre è vittima indifesa, da giovane capofamiglia a Manhattan delle soperchierie e del “pizzo” della Mano Nera. Ma un personaggio riuscito, una serie di personaggi riusciti, specie nei film di Coppola con lo stesso titolo, hanno creato uno stereotipo. Una serie di stereotipi, sovrimpressi alla Sicilia e al Sud, che tengono ancora bloccati la Sicilia e il Sud, avendoli come mesmerizzati, immobilizzati: la Sicilia e il Sud paradossalmente vi si riconoscono. Meno per i film, che non sociologizzano, non tipizzano. Nel romanzo invece è costante la sottolineatura: etnica, tribale, familiare. Che si tratti di linguaggi, cibi, affetti.
Un costruzione “eccessiva” che però è formidabilmente attiva. Una sorta di calco ineliminabile, indistruttibile, soprammesso al corpo del Sud. Ci sono anche molti errori – eccessi già all’epoca in cui Puzo scriveva. Il “sangue”. La “Sicilia”. L’omertà - “Solo a un Siciliano, nato ai modi dell’omertà, la legge del silenzio, poteva essere affidato l’incarico di consigliori”, mentrenon è così, il siciliano va tenuto con la briglia corta, altrimenti si sa che sono chiacchieroni, anche a sproposito, e traditori. Il ridicolo di certe rappresentazioni a chiave: Fontane-Sinatra, Margot Ashner-Ava Gardner, il megaproduttore Woltz-Mayer, il Senatore-che-non-c’è. La stupidità femminile: non una moglie, figlia o fidanzata si salva - la famosa “donna del Sud” è anche di questo romanzo.
E quanto “Il Padrino” ha formattato la pubblicistica sul Sud dopo la sua uscita nel 1969? Non si può dire – c’è, c’è stata, abbastanza ferocia nella Corleone propriamente detta e nella Sicilia in quegli anni e dopo per giustificarne l’immortalità. Ma ha determinato il linguaggio: andando a ritroso, c’è un prima e un dopo “Il padrino” nella pubblicistica sul Sud. Dopo sono gli stessi personaggi, ovviamente in vesti diverse, le stesse situazioni, le stesse mentalità (linguaggi): Puzo ha disposto (creato) tutto un mondo. A rileggere il libro non sembra – non sembra possibile. Ma si sa che successo chiama successo. Il successo crea lo stereotipo, dopo si fa in copia. Non c’è bisogno di chiamare in causa la pigrizia, l’industria va avanti per copie, quindi anche l’editoria. Anche perché il Sud vi si adagia, non protesta.
In questi cinquant’anni dal “Padrino” molta robaccia è stata ripulita a Manhattan. La polizia corrottissima di New York per prima. Anche la comunità italoamericana non è più trattata da dago e guinea (africano), o guinea giallo - che lavventuosa traduttrice Mercedes Giardini Ozzola rende misericordiosa con contadino terrone. Mentre la Sicilia e il Sud Italia sembrano averli adottati, Puzo e il suo monomaniaco romanzone. Come una corazza e quasi un modello di vita. Si leggano i giornali locali, in Sicilia, a Napoli, in Calabria, si conversi con chi ci vive, non c’è altro argomento: morti, minacce, dispetti, e padrini. Non si scampa.

L’invidia di don Milani
Le “Lettere a una professoressa”, il manuale pedagogico 50 anni fa di don Lorenzo Milani, è stato celebrato con una critica dal “Sole 24 Ore”. Lorenzo Tomasin, filologo romanzo a Losanna, ex Ca’ Foscari e ex Bocconi, vi ha individuato il nucleo dello sfascio della scuola, che non forma più e non insegna nemmeno. E dell’invidia sociale - allora si diceva “odio di classe” - che connota sempre più pervasivamente la società. A difesa di don Milani è poi intervenuto Carlo Ossola. Mentre la critica è stata ribadita da Franco Lorezoni, maestro e pedagogo. I tre interventi si sono soffermati sull’indirizzo seguito, a partire dagli anni 1970, dalla scuola dellobbligo sulla traccia di don Milani.
La “Lettera a una professoressa” si rilegge oggi come una “Lettera alla madre”. Di un giovane fiorentino di ottima famiglia, sportivo, colto, che giovane decise d’indossare la tonaca. E di dedicarsi ai più umili. Fuori città, però. E non da prete operaio, come allora usava nel cattolicesimo impegnato, ma da borghese illuminato.
L’azione pedagogica il giovane prete fiorentino – molto - rinforzava con un certo orgoglio contadino, per indurre  suoi ragazzi a uscire dall’apatia e accettare il diritto-dovere di migliorarsi. Con lo studio e l’applicazione. Sono però contadini come li vede la città, semplificati e santificati, alla Rousseau. E c’è indubbio, alla rilettura, una sorta di odio-di-sé borghese, che indirizzava i ragazzi non all’odio di classe, don Milani non era marxista né del Pci, ma sì all’invidia sociale, partendo dal disprezzo del ceto che pure, indirettamente, insegnava a imitare: quello borghese, del fare. La parte ordinativa faceva giustizia della scuola ridotta a burocrazia, a rito stanco. Da qui i nuovi indirizzi,di cui però non si può fare colpa a don Milani. L’impegno della “professoressa” della nuova scuola che Tomasin difende è semmai donmilanesco. Mentre l’abdicazione della borghesia è nei fatti, una recessione storica - don Milani, la sua mamma, la sua città, il suo stesso impegno, erano ben borghesi.
La polemica spiega però il ritardo del Sud. Che si è aggravato, malgrado i tanti soldi spesi per lo “sviluppo”, su questo snodo: l’invidia sociale eretta a sistema. Perché, autoreferente, non ha indotto né induce a fare ma a disfare. Annegando nella corruzione, contro la quale prima, in epoca “borghese”, c’era no argini, ora non più. Mentre la criminalità propriamente detta non si riesce più a arginare e prolifera – l’unico luogo al mondo senza anticorpi.
Il Sud ristagna per l’abdicazione della borghesia. Si dice il ceto politico meridionale inquinato, per storia, carattere, estrazione sociale. Ma non lo era fino a un certo punto della storia del dopoguerra- Non in Calabria (Mancini, Misasi), non in Sicilia (Alessi, La Loggia, gli stessi Mattarella, Macaluso), in Puglia (Di Vittorio e Moro su tutti), i tanti ottimi liberali e comunisti di Napoli.

Germania, o cara
Un ragazzo rumeno sa tutto degli alberi. Dell’habitat, la stagionalità, la fioritura, la fruttificazione.  Il tipo, la quantità e il tempo della concimazione. Il tempo in cui potarli, e il modo. Vari ragazzi prima di lui, varie coppie di ragazzi, locali, paesani, si sono solo divertiti con la sega elettrica. Non sapevano nulla, benché il paese sia di campagna, e non hanno imparato. Non avevano imparato, né alla scuola agraria, né nei campi, e non hanno voluto imparare.
Il giovane Micha è rapidissimo nella potatura, benché si paghi a ore, e poi nella disposizione delle frasche e la ripulitura dell’orto. Non è il solo, altri come lui, venendo sempre da lontano, anche dal Nord Africa, fanno gli stessi mestieri in campagna, precisi. Tristi magari, quelli in età, isolati dalla lingua, ma sempre applicati. Preferiscono lavorare , benché isolati, in queste zone remote di campagna, perché il guadagno fanno praticamente netto, poco o nulla pagando per l’alloggio. Hanno bisogno, sanno come fare fronte.
Si riapre la polemica contro gli immigrati che “rubano il lavoro”. Se non altro perché si pagano meno, e senza vincoli, fiscali o assicurativi. Ma si trascura che il giovane disoccupato a cui l’immigrato toglie il lavoro non fa nulla, non sa fare e non vuole imparare. Un tempo si diceva dei lavori pesanti, ma ora è vero di qualsiasi lavoro – che non sia naturalmente il “posto” checcozaloniano. Questo al Sud non è solo esperienza personale, si vede ovunque.
In parallelo si fa la polemica sui giovani che “devono” emigrare. Ma anche qui. Dei cinque giovani di cui genitori e amici hanno tentato l’inserimento nei piccoli lavori dell’orto, quattro sono emigrati in Germania. Tre fanno le pulizie, nelle case e negli uffici, cosa che non avrebbero nemmeno contemplato di fare in paese. A cinque euro l’ora mentre in paese se ne pagano otto. Il quarto fa il manovale in fabbrica: sveglia alle cinque, inizio del turno alla sette, a Rostock, dove sei mesi l’anno si vede il sole una o due ore, e non si può stare all’aperto più di cinque minuti. La paga è giornaliera, ma è di 65 euro per sette ore e mezza, mentre in paese è di 80. Tutt’e quattro devono pagare l’alloggio, che in Germania è meno caro che in Italia, ma al paese avevano la casa di proprietà.
Questo è un fatto noto: si accettano in Germania, dagli stessi lavoratori tedeschi, paghe e contratti che in Italia sono improponibili – per esempio i “mini-job”. Meno note sono le due mancanze del Sud. La scomparsa della voglia di imparare – della costanza, del lavoro ben fatto. E l’insofferenza, per cui emigrare è sempre un bene, anche nelle condizioni peggiori: la perdita di ogni nucleo di ogni nucleo di consistenza, e di ogni criterio comparativo, l’odio-di-sé. Il Sud è soprattutto cancellato (indebolito, maledetto) dall’immagine del Sud.

leuzzi@antiit.eu 

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