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giovedì 7 dicembre 2017

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (347)

Giuseppe Leuzzi

Tremila pagine della Procura di Roma, tenuta da tre siciliani, per appellarsi contro i giudici del Tribunale di Roma che al processo “Mafia Capitale” hanno escluso l’aggravante mafiosa.  Su toni di dileggio, come se i giudici fossero incapaci o collusi con gli accusati. Questa voglia di imporre la mafia a tutta l’Italia da che nasce? Solo per la carriera? Perché la mafia “risolve” tutto?

Seume, “Spaziergang nach Syrakuse”, il libro della “passeggiata verso Siracusa” che si pubblicò postumo, vent’anni dopo la morte (Seume è del 1763-1810), e non di traduce, è uno degli “Uomini tedeschi” di Walter Benjamin. Era per Benjamin la figura, nel linguaggio novecentesco, dell’“intellettuale progressista” – così Adorno, che ha curato questo Benjamin,  accenna nella nota su Seume. Ma la “Passeggiata” era per Benjamin il libro che avrebbe voluto scrivere – uno dei tanti: quello sulla ricerca di libertà attraverso i contatti con i popoli oppressi, dal potere o dalla miseria.

Seume è immaginato scrivere al marito della sua ex fidanzata – Benjamin autorappresenta i suoi “Uomini tedeschi” mediante una lettera che loro stessi scrivono. “Nella «Passeggiata», Benjamin premette alla lettera, Seume “superò gli strascichi di una relazione infelice con l’unica donna cui – sia pure non intimamente – si era accostato”. Aveva elaborato il lutto dell’impossibile amore sul monte Pellegrino, sopra Palermo: “Avendo tirato fuori l’amuleto col ritratto della donna,  si accorse di colpo che era in frantumi, e allora gettò nel precipizio ritratto e montatura”.  Una familiarità che oggi non ci potrebbe essere, tra Palermo e un intellettuale tedesco.

Bufale (anti)mafiose
La “Terra dei fuochi” è innocente. Carmine Schiavone un falso pentito di camorra, un malato terminale che sceneggiava. Preti e scrittori si sono arricchiti a spese della povera gente, condannata all’inattività  e - le mamme - alla crisi di nervi. Un generale si è infiorettato in tv che aveva trovato “tracce evidenti” di piombo – in un poligono da tiro… 
Un gruppo di una quarantina di istituti pubblici di monitoraggio e ricerca che per tre anni hanno censito e analizzato prodotti e produttori della “Terra dei fuochi” e della Campania tutta li hanno trovati innocenti. Su 30 mila campionamenti effettuati, presso 10 mila aziende agroalimentari, hanno riscontrato solo sei csi di “positività”, di contaminanti chimici o microbiologici superiori al consentito. Meno, molto meno, che nella concorrente pianura padana. O in qualsiasi supermercato.
Si parla di fake news perché è la moda negli Usa, ma una bufala gigantesca è stata creata e ha imperversato qui da noi, per almeno quattro anni, da quando Saviano ne fece il fulcro del suo romanzo “Gomorra” – su alcuni dei “Rapporti Ecomafie” di cui Legambiente si diletta invece di proteggere l’ambiente. E anche oggi che il rapporto del gruppo di ricerca è stato pubblicato, con tutti i dati, nessuno ne parla, solo “Il Foglio”. La cosa più dolorosa, il dispetto della verità
Anzi no, la cosa più dolorosa è che Napoli e il Sud ci hanno inzuppato il pane. Stupidamente, si direbbe, ma opportunisti, per grossi benefici. Preti e scrittori del Sud si sono magnificati con questa assurda storia, su tutti i giornali su tutte le tv, sui banchi delle librerie.
La cosa non nasce con Schiavone. Le prove erano state fate altrove, nei grandi giornali e alla Rai, con le bufale dei bidoni radioattivi sommersi al largo di Cetraro in Calabria. Dopo quelli sotterrati in Aspromonte, che nessun geiger ha rilevato. Tutto si può dire, ma solo al Sud. Capifila quelli del Sud.
Dire inattività però è sbagliato. Gli agricoltori della Terra di Lavoro, la più fertile e meglio organizzata area di produzione ortofrutticola, hanno continuato a lavorare, ma hanno dovuto vendere a prezzi ribassati fino al 10 per cento del precedente valore. Una speculazione ignobile.

Delieide
Siamo un paese dell’interno, il più alto dell’Aspromonte, che non è una montagna agevole, aperti a ventaglio sulla valle delle Saline, ora piana di Gioia Tauro, rifugio nei secoli di coloni greci in fuga, da Bova, dalla Piana, di ebrei di varia origine, di corsari arabi disertori, e di qualche raro commerciante in cerca di requie, magari dai debiti. Tutti debitamente convertiti. E, chissà, in pace, non abbiamo tradizioni di faide. Si può ancora tenere di giorno la porta aperta. Si può dormire la notte d’estate con le finestre aperte, non ci sono zanzare. Anche se i pipistrelli si lasciano talvolta accecare dalla luce e irrompono in casa.
Siamo un borgo come tanti, di case abbandonate in rovina, di scheletri in cemento armato dai tondini arrugginiti, e di quattro piani di palazzi coi muri di mattoni forati a vista e tavolati alle aperture, di cui il piano terra, forse, è abitato. E di sopraelevazioni e avanzamenti di prospetto per soperchiare il vicino. Con un mutuo da pagare alla banca, anche due, che non consente di finire l’opera e non fa dormire la notte – le gastriti acute, croniche e nervose sono diffuse, e ci sono casi di alcolismo. Non siamo un paese simpatico, l’accoglienza è, esageratamente, solo familiare, per il resto la domanda è: “Cu’ è chissu?”, chi è costui. Nessuno cammina, tutti girano in macchina, anche solo per fare pochi metri. Per non incontrare persone e doverci parlare. I marciapiedi latitano. Nn ci sono nemmeno sensi unici, malgrado le strade strette. Volendo fare una passeggiata a piedi nel tranquilli borgo di montagna bisogna camminare in avanti e insieme a ritroso, per salvarsi, tra una macchina e l’altra, impazienti, giustamente. Ma siamo reputati, siamo, un paese avanzato, il più intelligente della zona: più intellettuale e professionale, artistico, commerciale, e più ricco. Ricco probabilmente in assoluto, la Posta e la banca gestiscono almeno 40 milioni di risparmi – forse 50. Che per circa 800 famiglie fa 40-60 mila a testa, un gruzzolo che pochi italiani hanno. Una ricchezza – risparmio – anche agevole: stipendi e retribuzioni sono nazionali, contrattuali, le tasse sul lavoro autonomo non si pagano, a partire dall’Iva, e il costo della vita è un terzo di quello di Roma.
Ma non siamo un paese simpatico, pur avendo soldi e intelligenza. Non presentiamo un bell’aspetto, pur avendo ereditato una collocazione gloriosa, al collo di due vallate immerse nel verde, quello grigio argento degli ulivi sottostanti, eqlleo smeraldino d castagni e abetaie sopsrate. Una temperatura mite. Un clima secco. 
Eravamo laconici e operosi, applicati a lavori anche duri: terrazzamenti dei tanti dirupi, bonifiche pietra su pietra, gli orti rubati alle piene, alle pietraie. In piedi alle cinque, a letto alle otto. Per l’applicazione che viene dal bisogno, in zone anche ubertose, rese sterili dall’incuria di padroni lontani, a volte perfino sconosciuti. E sempre proiettati verso l’esterno. Desiderosi di viaggiare, scoprire – allontanarsi? Anche quando i mezzi erano scarsi, la corriera, qualche camion fumante. Per lavoro, per gli studi, per le cure, per semplice diversivo.
Emigravamo in massa, a fine Ottocento, ai primi del Novecento, fino alla guerra, negli Stati Uniti. Google scarica centinaia di omonimi dai registri di Ellis Island, il punto d’ingresso sotto la statua della Libertà, alcune diecine di omonimi completi, di nome e cognome, emozionanti, nella grafia pur incerta degli ufficiali americani dello stato civile, o dei moderni trascrittori online di quei registri. Alcuni corredati del nome del paese come luogo di provenienza, altri indicano genericamente la Calabria, o l’Italia del Sud - un omonimo è stato anche abate, nel secondo Ottocento, e massone, tesserato. Nei paesi la vita è varia.
Siamo emigrati fino al 1955, anche al 1960. C’è gente che nel 1948, 1949, 1950 andava in Argentina e Uruguay. E negli anni successivi in Australia e Canada, oltre che a Ventimiglia e in Provenza per i fiori e i lavori della campagna. La dromomania si può dire connaturata, se è una mania e quindi un male. Abbiamo poi saltato l’emigrazione in Europa, degli anni 1950-1960, il lavoro in miniera o in fabbrica non piace. Ma abbiamo avuto forte un’emigrazione intellettuale, del 70-80 per cento dei laureati, tre su quattro, quattro su cinque. La cugina L. a dieci anni, nel 1954, non era stata a Scido, che è a quattro chilometri, meno per il sentiero che ancora si praticava. Ma era già stata a Polsi, quattro-cinque ore di sentiero non agevole, per un avventuroso pellegrinaggio di due giorni e una notte alla Madonna della Montagna. Dei compagni alle elementari, una trentina abbondante, solo cinque sono rimasti al paese, e due delle quattro ragazze. La classe è il 1941, rimpolpata di qualche ripetente o ritardatario. Dei nutriti collaterali per parte paterna, quarantuno primi cugini, più quattordici zii, solo nove sono rimasti in paese, compresi i genitori, nove su cinquantacinque.
Questo è un bene e un male: l’emigrazione rappresenta una cesura. Dai racconti di chi è stato a trovare i fratelli, le sorelle, i cugini, negli Stati Uniti, in Australia, in Canada, non emergono mai novità adattate al proprio ordinario, alla propria vita di ogni giorno. Benché tra gli emigrati le storie di successo abbondino. Almeno tre imprese edili di primaria importanza sono state create da compaesani emigrati in Hamilton, Ontario, Canada, dove si contano più di un centinaio di famiglie del paese. Portate al successo dagli stessi emigrati, prima e meglio che dai loro figli. Ottime posizioni, nell’edilizia e nella lavorazione del maiale (prosciutti, insaccati), anche a Perth, Australia, dove un’altra colonia si è creata di dimensioni analoghe. E a Melbourne, la metropoli australiana, dove il circolo dei compaesani organizza periodiche feste con oltre cinquecento convitati di qualità. Lo stesso gli emigrati: nessuno ritorna. C’è la memoria, c’è magari il vanto delle origini, ma la visita è sempre breve, spaziata, ogni cinque-dieci anni, e alla fine spazientita. Alfredo Strano, che in Australia è diventato scrittore bilingue, e caso di studio all’università, si è trovato a un occasionale ritorno più spaesato di prima.
D’altra parte, se c’è il vanto della storia, c’è anche la memoria di una vita, illudersi non è possibile, quella realtà resta soverchiante. E noi andavamo a scuola in aule d’occasione, ogni anno una diversa, il basso di Domenico Moscatelli, un salone del palazzo Cordopatri, l’abbaino dell’ex Casa del fascio, gelido. Fino alla quinta elementare. E dopo di noi molti altri, fino al 1961 e alla buonissima scuola media di Fanfani, che costruì anche l’edificio scolastico, imponente, duraturo, e poi ancora per molti anni per andare alle superiori, i ragazzi si sono dovuti alzare alzati coscienziosi alle cinque, le sei del mattino, per prendere le corriere per le scuole medie e superiori, da cui tornavano alle tre, le quattro del pomeriggio (è da pochi anni che ci sono gli scuola bus della Regione). Riempivamo i collegi, maschili e femminili, di Messina, Salerno, Roma. Avendone le risorse.
Non un’infanzia infelice, sia detto per inciso, a parte il freddo – difficilmente l’infanzia in paese lo è. Vivendo liberamente fuori casa, e in gruppo senza segreti. C’erano sentieri allora per arrivare ovunque, sotto i castagni e gli ulivi, o scavati nelle marne, che davano ai ragazzi il senso di attraversare la realtà, come Alice nel paese delle meraviglie. Fino alle acque gelide della Pietra Grande, che vigilava una pozza nella quale era d’obbligo bagnarsi. O seguendo la fiumara Petrilli fino a una serie di mastre gorgoglianti, le canalizzazioni scoperte che portavano l’acqua agli orti – finendo, ogni volta col fiato sospeso per i sicuri rimbrotti, a Demisuli al frantoio del nonno, la “machina di Micuzzo”, il bisnonno, mosso ancora dalla ruota ad acqua. Era ancora il tempo in cui il frantoio – “machina” - andava ad acqua. La gigantesca ruota che l’acqua cadendo faceva girare, che a sua volta, con un gioco di pulegge e ruote dentate faceva girare la macina pesante sulle olive. E la pressa a spalla, una gigantesca vite ricavata da un tronco di rovere, che pressava i fiscoli di pezzolo, gemendo avvitata da un asse alle cui estremità due operai spingevano a braccia tese dapprima e poi con la forza delle spalle e del tronco.
Siamo due paesi distinti, benché unificati da quasi centociquant’anni anche noi, Pedavoli e Paracorio. Greci dunque anche nel nome originario. Col segno dato da Paracorio, più nervosa, irascibile anche, volubile. Per una costante alternanza, di accensioni, entusiasmi, e improvvisi cali di tensione, critiche e autocritiche distruttive. Perché siamo volubili. Così, se persistono le vecchie anime tribali, abbiamo cambiato in due generazioni un paio di volte assetto sociale ed economia - la geografia economica può mutare rapidamente, e anche all’improvviso.
Eravamo famosi per il miele, dice Lombroso nel 1862. Con Bova. Per i fagioli di Spagna: “Godono di molta fama i fagioli detti «pappaluni»”, notano Malvezzi e Zanotti Bianco nel 1909 - quando celebravamo 17 feste, tante ne contano stupiti i due studiosi filantropi. Come per i fagiolini corallo di speciale gusto, i vajaneji. E per i boschi. Ma l’industria del legno è sempre meno attiva. Non ci sono più gli ebanisti, che pure avevano una tradizione consolidata. E negli immaginosi anni Cinquanta puntavano a trasformarsi in industria. Ci sono ancora le api, ma non c’è più il castagno – proprio ora che il castagno, in tutte le sue forme, anche le foglie, è un’industria. Dopo esserne stati per secoli il centro, quando l’economia era di sopravvivenza o povera. Con la castagna ‘nserta di eccezionale pregio, maestosa, durevole, tutto l’inverno se ammarronata – messa in acqua e poi asciugata. Mentre le caldarroste che ora si vendono agli angoli delle città all’unità, piccole e gobbe benché piene, le castagne curce, erano destinate ai porci. Per non dire dei funghi, di cui siamo stati e tuttora siamo grande centro di raccolta ma a grado zero di utilizzo, se non domestico. Lo spreco forse maggiore della insopprimibile, benché dannosa ormai all’occhio dei più, economia suntuaria o della dépense, che l’antropologia rileva tanto nelle corti principesche che negli stati di indigenza: il consumo spensierato. Tanto più se si considera che il porcino dell’Aspromonte, un tempo famoso nel Regno, dalle Madonie a Napoli, è sempre in considerazione elevata nell’industria conserviera svizzera e padana per le qualità organolettiche, in tutte le sue tipologie, muntagnolu, schiaveju, vavusu, cardararu. Perfino l’acqua latita. Che pure abbonda, e di vario sapore – le acque di sorgente sono una specialità dell’Aspromonte: dopo il terremoto del 1908 Malvezzi e Zanotti Bianco contarono in paese 14 fontanelle, ognuna di sorgiva.
L’ulivo c’è ancora. Adeguato ai tempi, con cooperative e industrie attente alla qualità e al marketing. Che s’industriamo di far perdere il vizio del lampante, di considerare l’olio locale troppo acido, amaro, pesante, e neppure genuino, buono insomma per il lume – nel quale molti oli del supermercato peraltro non brucerebbero, contenendo talvolta solo il 4 per cento di olio d’oliva (il disciplinare europeo lo consente). Ma non ci sono più i frantoi, ce n’erano una diecina. È mutato per conseguenza l’assetto sociale. Avevamo una borghesia intraprendente legata all’ulivo, con presenze diffuse e talvolta condizionanti in tutta la Piana, Scido, Santa Cristina, Oppido, Varapodio, Laureana, Cosoleto, Palmi, una ventina di aziende, molte provviste di frantoio, che davano lavoro a tutti, seppure duro, tutto l’inverno. Con imprese edili in grado di concorrere in ambito regionale e perfino nazionale. È fortissimo ora il pendolarismo, mattina e sera. Non solo per le scuole della piana. Ma anche per lavoro, da Gioia a Reggio: gli occupati stabili fuori paese superano i duecento e si avvicinano ai trecento.
E dalla zappa, che piegava in due, siamo passati all’indolenza. Che c’era ma era  borghese, da figlio di mamma - le mamme più di oggi erano determinanti. Del secondo o terzogenito maschio avviato agli studi per non dividere la proprietà, avvocati o medici che non avendo concluso gli studi passavano il resto della vita tra i cento passi al circolo e le chiacchiere prima di pranzo e di cena, e lunghe dormite. Accuditi talvolta da sorelle nubili altrettanto risentite, e tuttavia restie ad affrontare una vita propria di fatiche, tra figli, case e marito. Ora è il sogno dei molti, c’è il “bamboccione” anche qui. Il notabile con l’unghia lunga del mignolo, falso laureato, vero nullafacente, è sostituito dalla rotondità dell’adolescente eterno. Entro l’albagia dei diritti cui il sottogoverno confina i più – la politica del posto, la pensione o il sussidio, a carico dei pochi che lavorano. Rotondo anche nell’epa, nell’attesa dell’impiego cui si sa incapace – è il vitellone due generazioni dopo, o tre: è questo il ritardo. Tra quelli che restano, e non fanno i pendolari. Che non sono più i pochi, segnati a dito. Anche per questo quelli che se ne vanno non sanno tornare, troppa indolenza: incertezza, superficialità, approssimazione.
Alla fatica e alla strafottenza è subentrato diffuso l’oblomovismo: lamentarsi di tutto, estranei e anzi renitenti all’azione. La reattività c’è sempre dominante, istantanea, violenta. La collera breve, che può essere assassina tanto è incontrollata. Ma non la prestazione costante, progettuale, applicata. C’è se essa risponde al “colpo di genio”, l’agnizione di un destino in un momento di astri favorevoli, di ritmi ascendenti, di ciclotimia. Ma anche in questi casi più spesso l’applicazione è breve: l’entusiasmo non è mai stato il nostro forte, piuttosto il senso critico. Si direbbe una civiltà femminile, magno greca? locrese?, non fosse di uomini robusti e pelosi. Ma indecisi, ecco.


leuzzi@antiit.eu

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