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martedì 23 gennaio 2018

Sull’euro aveva ragione Baffi

Si apre questa riedizione paperback con un sussulto. Nella nuova prefazione, una lunga nota per ribadire l’europeismo della sua critica, Stiglitz affina la denuncia dei punti critici dell’euro su una traccia che evoca Paolo Baffi: la linea dei cambi fissi ma flessibili. Che tanti lutti avrebbe risparmiato, e forse la stessa retrocessione dell’italia alla serie B, nel mondo e in Europa. L’“altra” linea dell’euro, che era la proposta italiana prima che Ciampi e Draghi sposassero le posizioni della Bundesbank, della rigidità e del vincolo esterno. “Una analisi di un unione monetaria”, ribadisce Siglitz, “che non cominci col chiedersi cosa succede quando i tassi di cambio sono fissi manca il nodo centrale: il problema fondamentale dell’euro è stato che ha eliminato il meccanismo di aggiustamento dei tassi di cambio e non ha messo niente al suo posto”. Se la Germania nella seconda parte della crisi post-2007 avese inflazionato la sua economia, aumentando salari e prezzi, “questo avrebbe innestato il necessario aggiustamento del tasso di cambio reale”. Ma questo non è previsto nei trattati, e quindi non faceva parte del “kit della trojka”. Anzi, “mentre insegnava agli altri quello che dovevano fare, la Germania ha perseguito politiche che conducessero a un più ampio surplus dei conti correnti con l’estero”, a indebolire i partner. Questo, insiste Stiglitz, era già spiegato in “L’euro”: senza aggiustamenti nel tasso di cambio, “alcuni paesi (come la Germania) realizzano enormi surplus dei conti correnti”, mentre altri “languiscono”. 

I dati sono quello che sono – a parte il “deficit democratico” di questa Euroeuropa. Che Stiglitz mantiene immutati, quelli della prima edizione un anno e mezzo fa, peraltro noti a tutti benché sottaciuti. L’eurozona ha fatto peggio rispetto all’Europa non-euro, e molto peggio rispetto agli Usa. Con un andamento del pil reale pro capite negli anni 2007-2015 negativo, di meno l’1,8 per cento, contro un più 2 per cento dell’Europa non-euro, e il 3,2 degli Usa (p.69). Gli anni dell’euro sono stati magri per l’Italia, magrissimi (p.75): una crescita stitica, di poco più dell’1 per cento, negli anni 2000-2007, e una decrescita media del’1 per cento tra il 2007 e il 2015. 
Da crisi in crisi, a beneficio degli hedge funds
“La colpa è delle vittime” è la tesi di Bruxelles, Dijsselbloem, Moscovici – Stiglitz parte da questa constatazione. Per anticipare subito secco la sua conclusione: questo dice tutto sullo stato dell’Unione, troppi paesi dell’eurozona andrebbero meglio senza l’euro. I paesi del Nord Europa hanno reagito meglio perché “virtuosi”? Ma la Finlandia, “un paese del Nord con buone istituzioni, che andavano abbastanza bene prima dell’euro”, ha problemi. E l’eurozona nel suo insieme ha un tasso di crescita ridotto, quasi dimezzato, rispetto al resto del mondo. Rispetto al Ferragosto 2016, quando “L’euro” fu pubblicato la prima volta, Stiglitz dice più che confermata la tesi che “l’eurozona nell’insieme avrebbe molto probabilmente tirato avanti passando da crisi in crisi – un percorso di aggiustamenti che apre ampie opportunità agli hedge funds che prosperano nella volatilità e l’instabilità ma che mina la crescita e i miglioramenti a lungo termine degli standard di vita”.   
Un altro libro, in un’altra ottica: dal malfunzionamento dell’euro al populismo dilagante, con la Brexit e l’America First. La riedizione contiene un capitolo, in forma di postfazione, sulla Brexit e il populismo. E un’introduzione che sintetizza e acumina i vizi dell’euro. Il tema politico è semplice: centro-sinistra e centro-destra, il “consenso” che governava l’Europa sulle stesse posizioni (privatizzazioni, deregolamentazioni, del lavoro compreso, incentivi al capitale), hanno imiserito l’Europa, e buona parte degli Usa, e non rispondono più al sentimento popolare.
L’euro della casalinga sveva
I problemi dell’euro sono una mezza dozzina, sempre insoluti. È una mneta unica, ma in una struttura politica confederata, non unitaria. In una struttura decentrata, “il principio di sussidiarietà è cruciale”: ciò che è locale, e ha pochi o punti riflessi al di fuori della comunità, dovrebbe esere lasciato alla comunità. È sbagliato il fondamento dell’euro: che il deficit di bilancio e il debito sono nemici della moneta unica. Sul presupposto che un paese o un’economia che non adottase politiche restrittive “impone esternalità” agli altri. Le “esternalità” sono state imposte alle economie, ridotte alla stagnazione, e alle politiche di solidarietà, cancellate. Per preservare la concorrenza, sono state proibite tutte le politiche industriali, comprese quelle che avrebbero aiutato i nuovi entranti nel cammino della “convergenza”, senza disastrarli (emigrazione, crisi bancarie, crisi sociali) e con beneficio complessivo di tutti – come prevedevano i trattati europei ante-euro. Una gabbia così rigida lascia però libertà di concorrenza fiscale, all’Irlanda e al Lussemburgo sopra tutti (Juncker ne è maestro), e anche all’Olanda, al Portogallo, a Cipro.
Nella prefazione Stiglitz sottolinea i capp. IX e XII, per difendersi dalle accuse degli europeisti à la Merkel, di essere parte della speculazione contro l’euro. Sottolinea che le sue proposte di riforma – peraltro necessaria – sono in linea con l’Unione Europea come i suoi fondatori l’avevano voluta,”una unione vincolata da un senso di soldarietà e interesse comune”. Propositi che si sono perduti nel “neoliberalismo e gli interessi delle élites aziendali”. Nonché, aggiunge nella postfazione sulla Brexit, nella demagogia della “casalinga sveva” cui indulge Angela Merkel.

I limiti dell’euro indeboliscono la politica: “Nei paesi in crisi i cittadini tendono a colpevolizzare i loro politici, non considerando i vincoli entro cui devono operare”. Ma, se l’euro è popolare, “cresce anche la sfiducia verso le istituzioni europee, inclusa l’istituzione centrale dell’euro, la Bce”. Con la considerazione ovvia nella pagina dedicata all’Italia – ma non ovvia in Italia, né alla Vigilanza Bce – che “un’economia che ristagna per un periodo lungo quasi inevitabilmente si ritrova le sua banche in difficoltà”.
Soldi alle banche, sfratti ai cittadini
Chi ci ha più rimesso, del neoliberalismo dell’ultimo terzo di secolo, “sono state le classi lavoratrici e medie in Europa e negli Usa”. Il populismo è tutto qui, e la disaffezione dalla politica (astensionismo). Questa è la chiave del capitolo conclusivo, un lungo saggio sulla Brexit che Stiglitz aggiunge: “Le banche sono state salvate – di fatto centinaia di miliardi di dollari sono andati al salvataggio delle banche, dei bancheiri che hanno causato la crisi, dei loro azionisti e obbligazionisti – ma poco è andato ai cittadini ordinari, incluse le vittime del credito predatorio delle banche. Milioni hanno perso il lavoro. In molti paesi, tra essi gli Stati Uniti, l’Irlanda, la Spagna, la Grecia, molti hanno perso la case, con sfratti di massa”. Di più: “Tagli massicci e controversi nel tessuto basico della società – nell’assistenza sanitaria e sociale – furono necessari per essere generosi con le banche. Tutto questo sembrò molto ingiusto – e lo era”.
L’economista americano, premio Nobel 2001, è di parte. Premiato a Oslo per studi di microeconomia (sulle “asimmetrie informative”: nel caso da lui analizzato le tecniche di un attore economico che voglia acquisire informazioni anche esclusive da un altro attore), è un economista politico. È stato sostenitore e parte attiva del movimento Occupy Wall Street nel 2011, è consulente di Corbyn, il segrerario neoclassista del partito Laburista britannico, ex vice-presidente (direttore degli studi economici) della Banca Mondiale, impegnato per la liberalizzazione delle importazioni dal Terzo mondo povero. È contro il neoliberalismo di Blair e Schröder, è colpito negativamente dalla Brexit, da europeista convinto, e molto ostile a Trump e al programma America First. Ma non si evita di spiegare che gli accordi economici globali di Obama, il Transpacifico e il Transatlantico, che Trump ha denunciato, sono stati negoziati e conclusi in segreto, per esiti evidentemente poco democratici, non di opportunità per tutti. Curiosamente anzi, nella apgina in cui attacca Trump (p. XIX), gli dà ragione: “Senza forti iniziative nazionali” non c’è futuro, “gli standard di vita di molte persone peggioreranno significativamente e molte comunità saranno abbandonate”. Nativismo e protezionismo sono le risposte, e l’isolazionismo (Brexit, Catalogna - e America First?).
La sua verità è peraltro semplice: “Non si può avere un’unione economica senza una qualche condivisione dei rischi e degli oneri. Tenersi al ritornello “L’Europa non è una transfer union”, un’unione di sussidi, “significa che l’Unione Europea non può funzionare”. Non col falso argomento dell’“azzardo morale”, il rischio che i paesi più poveri o disordinati si approfittino di un qualsiasi sistema di condivisione del rsichio – l’argomento è “un uso vergognoso di ragionamenti speciosi”: come si fa a immaginare che un governo provochi la disoccupazione, o mandi le sue banche alla bancacotta, giusto per avare un fetta più grande di trasferimenti Ue?
Joseph E. Stiglitz, The Euro, W.W.Norton, pp. 459 $ 17,95

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