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sabato 20 luglio 2019

L’Occidente perduto tra Africa e Arabia


Uno stravagante straordinario reportage dal mar Rosso, tra Gibuti, il deserto sassoso che fungeva da colonia francese, “ora chiamata più discretamente territorio degli Afar e degli Issa”, due popolazioni (le ex tribù) che aspettano soltanto la partenza dei militari francesi per accopparsi, e l’Arabia “deserta”, ancora nel 1970. Popolato da personaggi e eventi talmente veri - specie quelli crudeli, alla Malaparte, di cui Gary visibilmente indossa le scarpe - da riuscire inverosimili. A partire dal governatore, Dominique Ponchardier, collaboratore della prima ora e confidente di De Gaulle, uomo della Resistenza tutto d’un pezzo, cui i gollisti traditori dell’Oas hanno trucidato un figlio, forse due, e il fratello ammiraglio, già ambasciatore in Bolivia, dove aveva “salvato Régis Debray da un’esecuzione sommaria «durante un tentativo di fuga»”, nonché prodigo alimentatore della Série Noire, la collana classica dei gialli in Francia, per la quale ha inventato e imposto due parole chiave, “gorilla” e “barbouze”, il confidente mascherato. Compreso l’irriducibile parà fascistone dell’Oas, la cui ricerca è all’origine dello sbarco di Gary nella colonia: un “pazzo” sempre fanatico che Ponchardier ospita. Non i soli, il reportage è una fioritura di persone e eventi normali-eccezionali. Fino al golpe dell’odierno sultano dell’Oman Qabus contro il suo proprio padre, che non voleva nessuna modernità.
L’esito è un inno bizzarro ai benefici del colonialismo. Non difficile, visto il poi, l’esito delle indipendenze: “L’avventura colonialista vive qui, a titolo postumo, uno straordinario momento di autenticità…”. Dove i punti di sospensione segnano l’incredulità del resistente Gary. Conducendolo poi alla correzione, alla critica del colonialismo: se l’Africa inciampa o scivola, è che l’Europa non vi ha posto alcun fondamento - il che non è nemmeno vero, e quindi Gary può oscillare tra ciò che vede e i principi. Insomma, sempre alla Malaparte, lasciando insoluta, e anzi pompando, l’ambiguità, etica, politica e storica.
La crudeltà, nel traffico di esseri umani, vi è raccapricciante. Un arabo-eritreo dell’Asmara, che ora pacioso nella sua città “intrattiene una bettola”, è stato capitano di “un dhow a vele brune bruciato all’improvviso all’avvicinamento dei doganieri francesi, mentre l’equipaggio si salvava a remi”, lasciando “a bordo i resti calcinati di venti ragazzine somale che trasportava verso i bordelli di Suez e di Alessandria”. Ma, poi, la ricerca del “soldato perduto”, l’ammutinato Oas, il nazionalismo colonialista e razzista che Gary e Ponchardier esecrano, si tramuta in un elogio. Con l’elogio del “pied noir”, il francese d’Algeria irriducibile nazionalista, che si spende nell’impossibile colonia come cooperante tra gli intrattabili indigeni. Con molte verità peraltro. C’è perfino il vezzo degli inviati ai fronti di guerra  di farsi sequestrare dai nemici, per poterla poi raccontare meglio.
Sul mar Rosso Gary trasporta il Golfo Persico di prima del diluvio cinquant’anni fa, e anche meno, nel 1970, prima della triplicazione del prezzo del petrolio nel 1973. Fra ignudi subacquei alla ricerca dei rubini, smeraldi, diamanti che Ibn Saud, il fondatore del regno saudita, aveva fatto disperdere in mare perché li raccolga l’amato figlio premorto, il primogenito. E panciuti dhows che contrabbandavano l’oro di cui gli indiani sono ingordi - gli “sceicchi” più ricchi e prodigali, di Dubai, del Qatar, sono ex contrabbandieri, ancora negli anni 1970. Mentre Ben Tamur, il sultano dell’Oman spodestato dagli inglesi col figlio Qabus nel 1970, era uno che si opponeva a ogni modernizzazione, compresa la luce elettrica. Con un po’ di malinconia, già in questo avventuroso viaggio - nello Yemen sempre in guerra civile con la moto, in solitario. Ricordando gli “antenati ebrei” altrove rimossi. Da “collezionista d’anime” – “titolo bizzarro” che il “New York Times” ha voluto dargli.
Romain Gary, Les trésors de la mer Rouge, Folio, pp. 123 € 2

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