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mercoledì 9 marzo 2022

Matricidio, Saba ci provò con l’esorcismo

Stefano Coletta, il direttore di Rai 1 visto a Sanremo, all’ultima edizione del festival, si laureò con una tesi su Saba e il matricidio, Cinquegrani presumibilmente lo ha seguito -  anche lui, come Coletta, abbandonando subito dopo la filologia (fa il critico cinematografico). Entrambi colpiti dai versi per una volta tonanti di Saba:
“Sempre, come ritorni primavera,
di me tu devi ricordarti. Io sono
il matricida Oreste, e un sacro dono
porgo ai mortali: la Tragedia austera”.
Romolo Rossi, lo psichiatra genovese che per primo l’ha ipotizzata, la psicosi del matricidio, (“Umberto Saba: Oreste ed Edipo”), le trova due riferimenti solidi. Uno è in “Bersaglio”, uno dei sonetti della raccolta “Versi militari”, 1908, di Saba quasi esordiente: “L’ossessione matricida, sintomo centrale della sua nevrosi, è bene rappresentata nell’immagine materna che si staglia angosciosa di fronte al mirino del suo fucile:
“…. Va la temibile frustata
E una sagoma cade…”.
L’altro riferimento è la quartina famosa già citata, del 1924, sotto il titolo “L’eroe”, uno dei componimenti della raccolta “Prigioni”. Saba, dunque, prigioniero della sua fantasia matricida?
Saba ha sempre avuto, anche in vecchiaia, il peso di avere turbato la vita nascendo, la vita della madre in primo luogo:
“Or se ti guardo un rimorso mi strazia
Per quanta pace, nascendo, ho turbata”.
Di una ragazza madre, abbandonata dal padre per motivi che non si sanno ma nella memoria del bambino Berto sempre triste e arcigna – mentre è allegro e ritornante il racconto della balia cui la madre l’ ha affidato per i primi tre anni, Peppa Sabaz, da cui il poeta ha preso il nome d’arte.  
Ma del mito di Oreste che sempre lo avrebbe perseguitato non si trova traccia. Neppure nella saggistica su Saba, con queste eccezioni – ce ne saranno altre ma si sono perdute, insieme con gli studi sul poeta triestino, da tempo ormai desueti.
La traccia viene collegata anche ai contemporanei di Saba, come fosse un tema storico, ricorrente in un’epoca, a metà del Novecento. Del mito di Oreste Visconti faceva poco dopo uno degli eventi motori de “La caduta degli dei”, per la parte incesto. Ma “la solitudine è la prima conquista di un uomo”, è ben un verso di Saba, il suo leitmotiv.
Giacomo Debenedetti, che di Saba fu una sorta di patrono critico, oltre che amico fraterno (paterno) e anfitrione nell’anno che Saba trascorse a Roma a fine guerra, ed è anche il critico che prima e più di ogni altro fece uso della psicoanalisi nella lettura, non dava alla cosa molto credito. Se non per un aspetto, per un fatto anzi, di sua conoscenza, nel quale il matricidio si sarebbe in qualche modo materializzato. Nei due saggi su Saba recuperati nella raccolta “Italiani del Novecento” ne fa una questione di esorcismo, di passione per il diabolico occulto.
La sensualità di Saba Debenedetti dice, come tutti, “onesta e contenuta”. Per la madre ha risentimento, ma più pena: “Tu pel fanci ullo eri l’infallibile,\ eri colei che non conosce errore,\ l’umile tua parola nel suo cuore\ scolpivasi, così ch’ebbe indicibile\ angoscia, quando per la prima volta,\ non men d’ogni altra, la tua mente folta\ d’errori discoverse”. Quando “discoverse” il padre – il “mio  povero padre ramingo\ cui malediva mia madre” (“Mio padre è stato per me «l’assassino»,\ fino ai vent’anni che l’hop conosciuto.\ Allora ho visto ch’egli era un bambino,\ e che il dono ch’io ho da lui ho avuto”).   
Ma a Saba imputa, nel saggio “La sua Quinta Stagione”, un “connubio di sincerità impulsiva e di segretezza che talora gli si leggeva anche in faccia”. Il tremendismo di “Epigrafe”, la cerimonia greve di espiazione cui la breve ultima raccolta ci convoca, è legato a un segreto, spiega: “Il segreto, che egli non poté confidarci da vivo, trapela principalmente da ‘Vecchio e giovane’, l’ultima, forse, delle sue maggiori poesie”. È un segreto che il critico conosce, e decide di dire: “La poesia ‘Vecchio e giovane’ confessa, e teme di non essere riuscita a espiare, un pericoloso, crudele, tentativo di esorcismo, per il quale Saba si valse di persona che gli era cara”. Saba “era istintivamente un adepto delle pratiche esorcistiche”. In qualche modo ne conosceva “i rituali e procedimenti esecutivi”. Il matricidio ha dunque realizzato, provato a realizzare, sotto forma di esorcismo, di diavoli da scacciare?

Il critico, che di Saba ne sa più di ogni altro (nelle testimonianze sparse anche di suo figlio, Antonio Debenedetti), non indulge al pettegolezzo. Ma, per quanto cauto, insiste: “Che egli ammettesse volentieri di avere tanti rabbini dietro le spalle, tra i quali ci sarà stato indubbiamente qualche rabbino miracoloso ed esorcista, questo può ancora essere un indizio vago. Più probante è il fatto che al proprio incontro con la psicanalisi abbia dato subito un’importanza decisiva” – la psicanalisi viveva come un rituale esoterico. E ancora: “A descrivere le cose in maniera un po’ allarmata, alla quale però egli steso indulgeva, il suo male di vivere, lo stesso suo sviscerato e contraddetto amore di vivere, così ansioso che arrivava a sospettarsi illecito al pari del suo amor dell’amore, gli si manifestavano per incubi, coazioni, angosce, minacce, presenze e pensieri infestanti: qualcosa di analogo, insomma, a un invasamento da spiriti maligni”. Più preciso: “Che altro era stata, fin dagli inizi, la sua poesia? Quello che negli altri poeti si chiama giustamente catarsi, in Saba meritava più propriamente il nome di esorcismo”. Freud fu un Ersatz e un aiuto, a vedere più chiaro, se possibile, in questi impulsi. 
Alessandro Cinquegrani,
Umberto Saba. Io sono il matricida Oreste, Marsilio, pp. 253 € 22

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