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martedì 10 novembre 2009

Senza Grecia, senza grazia

Sarà stato l’ultimo viaggio a piedi in Europa, sicuramente l’ultimo in compagnia di Orazio, e di Virgilio, nonché di Shakespeare, ma raramente decolla. Scritto nel 1977, sui taccuini e i ricordi del vagabondaggio di gioventù da Londra a Costantinopoli, attorno al Reno e al Danubio, dal dicembre 1933 al gennaio 1937, si ferma a un non originale e per nulla ispirato come eravamo. Perfino la filologia, su cui Leigh Fermor ha imbastito racconti memorabili, lavora qui al rovescio: c’è da accertare una shakespeariana “costa di Boemia” nel “Racconto d’inverno”, ma il percorso è di scuola. La mancanza di vena è singolare, a fronte dei tanti materiali, e dopo gli eruditi, fantasiosi, grotteschi “Mani e “Roumeli”. Ma il viaggiatore ha bisogno evidentemente di un mondo altro, alieno.
È un mondo dove Fiume si chiama ancora Fiume, e Lipizza Lipizza. Ma la veduta forse più interessante manca del tutto: com’erano le città e i villaggi del Centro Europa prima e dopo la guerra e i bombardamenti – vano pretendere da un inglese la messa in discussione dei bombardamenti? In rari casi la narrazione si solleva: i barbari, rintracciati nelle fonti romane, i lanzichenecchi pomposi, il vagabondo che passa il tempo leggendo Shakespeare, uno Shakespeare di fantasia, italianato, il (futuro) alter ego baron Pips. Al meglio è nei linguaggi, che seppure incomprensibili Leigh Fermor sa sempre fare significativi, specchio e oggetto di narrazione. Bizzarramente radicato nella tradizione simbolista, che è francese, e alla sua prima manifestazione, decadente, anzi al decadentismo più duro, voluttuosamente estetizzante, alla Huysmans. La lingua è invece attiva: è lo sguardo obliquo, alla Lewis Carroll, alla Hašek, attraverso cui penetrare la modesta realtà verificabile. Ma qui incidentalmente.
L’edizione New York Review of Books fa precedere “Tempo di regali” da un’affezionata prefazione di Ian Morris, che ne precisa la cifra narrativa come “multistrato”. E prende a esempio il cap. 6, che parla dell’entrata a Vienna: “Contiene una discussione dei canti popolari europei, un passaggio sulle regie shakespeariane, una lezione sui vagabondaggi tribali, una descrizione della morte di Odoacre, due pagine di conversazione con la moglie di un ufficiale postale, un’imponente evocazione lirica dell’abbazia benedettina di Melk, divagazioni accademiche su Riccando Cuor di Leone, un aneddoto su un’eco specialissima, visite a un monaco irlandese e ad aristocratici austriaci, un regalo di uova d’oca, l’arrivo a Vienna nel mezzo di un putsch, per finire in un giaciglio dell’Esercito della Salvezza”. Ma è uno spreco d’inventiva. Il dono narrativo di Leigh Fermor sarà stato della Grecia (anche in questo viaggio: la seconda parte, qui non tradotta, “Between the Woods and the Water”, è ben più vivace).
Patrick Leigh Fermor, Tempo di regali, Adelphi, pp. 356, € 20

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