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lunedì 2 maggio 2016

Il cammino degli abbandoni

Prose diverse, alcune – della stessa mano – accattivanti. La storia è composita, su una scaletta di vecchio conformismo di partito (qui si dice emotivo), dagli scioperi delle raccoglitrici di gelsomino a Locri, coltura poi abbandonata, al No Tav, da nonna a nipote. Col miracolo di Alba nel mezzo, dall’abbandono ai grandi vini, a Ferrero e a Slow Food. Coi Templi Laici, il Salone del Libro di Torino e l’alchimia del tartufo in oro. Con qualche prestito - fino al “tamarro”, di ritorno da Milano. E il “cammino della speranza” sui barconi, di Amina che viene dalla Siria. Con omaggio finale, dopo quello iniziale a Carlo Petrini, a Mimmo Lucano, innominato, il sindaco di Riace o dell’accoglienza.
È la storia anche delle fattrici calabresi che il miracolo di Alba rimpolparono con una primavera demografica. Questo non è proprio in linea, i matrimoni combinati tra ragazze calabresi, centinaia, o napoletane, e i contadini del cuneese. Ma per l’essenziale è Radio Tre. Con passi avvincenti: il figlio abbandonato, il figlio ritrovato, e alcune “calabrotte” di Nuto Revelli, “Mondo dei vinti”, “L’anello debole”, che probabilmente ha dato l’appiglio ai “Palanca”. Vera docufiction però quella, molto lavorata, molto pesata, non di eroismi ma di martirii, dramma e non colore – qui si salva, nella melassa, la donna del titolo, che non ha mai riso. Sullo sfondo, i questi pochi pezzi non arruffati, della “madre terra”: una evocazione – inconsapevole? – molto jonica, della divinità femminile e materna, Demetra, Persefone.
Il racconto è folgorante del figlio che non doveva nascere, da un incontro occasionale nei giorni di “passione comunista”, delle “radiose giornate” dannunziane di sciopero, manifestazione, occupazione di terre. Poi subentra la retorica ancien régime:  pugni chiusi, la forza delle parole, la potenza delle rivendicazioni, la fraseologia d’antan - comprese “le emozioni di quelle mattine terse in cui ha scoperto la speranza”: l’ha scoperta Dora, che l’ha pagata con cinquant’anni di solitudine e rimorso. Con un paio di inavvertite verità (contraddizioni). Alba che è più piccola di Locri ed era più povera nel 1945, e ha ora ricchezza almeno dieci volte superiore, e qualità di vita – non ha chiuso le colture, le ha adattate. E il fatto che più colpisce l’emigrato di ritorno, qui moltiplicato per le deprecazioni costanti degli autori: che i buoni in Calabria sono naturalmente i più, e vituperatori taglienti, ma è come se non ci fossero – il mondo è brutto in Calabria non perché ci sono i cattivi ma perché i buoni sono cattivi?
Resta inevaso un proposito: di raccontare la vera storia di un “rapito”. Una promessa di riscatto del “rapito”, che sarebbe stato un caso unico nella trabordante pubblicistica locale, piena di principi e aliena ai fatti – il vizio del vecchio compito in classe. Di uno dei tanti rapiti: legato per tre, quattro, cinque mesi, piegato dentro capanni angusti, solo e in silenzio, con poco cibo e irregolare, che non smarrisce l’umanità. Sarebbe stato forse l’unico atto di rivolta classista, e la rottura della vera omertà. I sequestri di persona, la realtà per alcuni decenni di mezza Calabria, non hanno mai interessato nessuno: non i ricchi, l’abbiamo scampata, né i poveri evidentemente, affari suoi, e nemmeno i Carabinieri, che non hanno mai preso nessun rapitore. Qui dovevano diventare il sequestro della Calabria tutta, “la sofferenza collettiva” di una Calabria che proprio “da allora”, coincidenza o correità, “resta sequestrata, incatenata a una porcilaia, ormai assuefatta alle misere pietanze che i suoi carcerieri le servono quotidianamente”.
Lou Palanca, Ti ho vista che ridevi, Rubbettino, pp. 212 €14

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