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martedì 13 dicembre 2016

Vita quotidiana di ebrei nella Germania di Hitler

Una memoria rinfrescante, raccontata con semplicità. Ai quasi novant’anni della narratrice – preludio, si spera, di una seconda narrativa, degli anni che visse con Claude Lévi-Strauss. La decisione di scrivere è stata presa nel 1995, ma il mémoir è stato scritto nel 2010, dopo la morte del marito. Lui non voleva? Può darsi, Monique ha una visione tutta particolare della guerra. La stessa, probabilmente, che non le ha trovato in Italia altro editore che il cardinale Ravasi, nume tutelare delle Dehoniane – in originale le prestigiose edizioni parigine du Seuil.
Qui Monique Roman, nata nel 1926, narra come fra i 12 e i 19 anni, tra il 1938 e il 1945, visse in Germania, con la madre ebrea americana e il padre belga, ingegnere per una ditta tedesca. Anche nei mesi, dopo l’invasione del Belgio, in cui il padre fu internato come nemico: l’ing. Roman assolutamente ci teneva a lavorare in Germania. Nel 1945 i genitori si separano, e Monique può tornare a Parigi con la madre e il fratello minore, dopo la liberazione. Quindi tentare l’esperienza americana, dove è privilegiata in tutto, nell’agiatezza, gli studi, il lavoro, ma che non sente sua. Dopo una pausa a Milano, rientra a Parigi. Riprende gli studi di medicina, e soprattutto diventa un’icona come mediatrice culturale, “possedendo” tre lingue nello stesso grado, il tedesco e l’inglese come il francese. Per conto di Jacques Lacan soprattutto, al quale legge Melanie Klein, Shakespeare, Freud et al., di Bataille e di altri. Fino al settembre 1949, all’incontro e al matrimonio con Lévi-Strauss. 
Nulla di eclatante, a parte la scelta di vivere la guerra in Germania. Ma sì di inquietante,  sottilmente. In Germania la famiglia Roman vive bene, non fa cattivi incontri, non è e non si sente spiata. Lavora anche la madre. Monique fa il liceo, bene accolta a scuola benché abbia a lungo problemi col tedesco, e dopo di lei lo farà il fratello, e va all’università di medicina. Un ramo materno continua a prosperare a Vienna. Monique è stata battezzata a undici anni, nel 1936, insieme col fratello, forse nel nome del padre, benché socialista e miscredente. Ma poi anche la madre si fa battezzare – e si fa confermare il battesimo da un vescovo dopo la guerra. La liberazione è attesa e benvenuta, ma prima ci sono state le bombe incendiarie al napalm dell’aviazione Usa.
È una sorta di viaggio spensierato nella guerra e nel Terzo Reich, alla maniera di Fey von Hassell, o di Mary de Rachewiltz, anche se conscio dei pesi e degli schieramenti in lotta. La stessa vita di castelli e grandi residenze, viaggi, conoscenze sempre selezionate – e psicoterapie: tutte le donne di parte materna sono in analisi nella seconda metà degli anni 1930, a Parigi e a Vienna. La stessa industriosità, senza nemmeno un’ombra di handicap femminile. L’esuberanza, l’ottimismo, la voglia di vivere.
Il racconto di una personalità. Ma anche un’altra narrazione della guerra – come dice la quarta di copertina: “Uno sguardo originale sulla vita quotidiana ai tempi di Hitler”.
Monique Lévi-Strauss, Un’infanzia nella bocca del lupo, Edizioni Dehoniane, pp. 177 € 14

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