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lunedì 12 giugno 2017

Vita dura al cinema

Il romanzo di Maupassant virato all’unidimensionale, la disgrazia. Seriale: le disgrazie si succedono ineluttabili. Femminista anche – non è vero, la vittima è sì donna, ed è tradita dal marito e dal figlio, ma non dal padre, mentre è tradita pure dalla madre (la zia in Maupassant) e dalla sorella di latte, ma così vuole la promozione e questo aumenta il peso. Violento, all’interno della storia e sullo spettatore: due ore di piani stretti, mezze figure e primi e primissimi piani, senza respiro – se c’è la campagna o il mare è in campo medio e in grigio, secca la terra, schiumante l’acqua. Da film d’autore, certo, a basso budget, ma soffocante.
Maupassant realista e visionario è scrittore da cinema, una cinquantina almeno di film sono stati tratti dai suoi racconti e romanzi. “Una vita”, il primo dei suoi sei romanzi, ha un solo precedente, Astruc nel 1958, con Maria Schell, Antonella Lualdi e Christian Marquand, e andava svelto, limitando i lutti al rapporto vittima-marito, poi lei guardava l’avvenire col figlio. Alla maniera di Maupassant.
Maupassant ha solo donne vittime, dacché aveva adottato gli schemi Zola a Meudon, in tutti i romanzi e i racconti – eccetto quelli salaci: borghesi o prostitute, giovani o in età, avvedute o sventate. Di suo era però l’esatto opposto del femminista: era cacciatore, presto sifilitico, che la donna considerava cacciagione come la volpe, su cui non intristiva. Non avrebbe retto a questa sua “Una vita”. Ma il problema non è di Maupassant, è dello spettatore.
Stéphane Brizé, Una vita

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