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sabato 17 giugno 2017

La liberazione viene combattendo

Il primo viaggio in nave al primo comando contro la bonaccia in mare e la pestilenza – diciassette giorni tra Bangkok e Singapore. Col senso caratteristico – il sortilegio – del disfacimento, che è il tropico per gli europei. Con un curioso – non disturba – va e vieni nei tempi del racconto, tra il passato e il presente. Le cose si concludono bene poiché il protagonista ce le sta raccontando, ma la tensione è sempre elevata. E non per essere conradiani.
La storia è semplice: c’è da “governare una nave in corsa selvaggia piena di moribondi”. Dopo quindici giorni di calma letale. Una storia di resistenza, contro ogni elemento: mare, aria, uomini. E di tradimenti, fino al malocchio: il vecchio comandante, che tiene la nave bloccata in calma piatta nel punto in cui è stato seppellito, si è venduto di nascosto anche la provvista di chinino. Una storia della ragione della follia. O della follia della ragione. Un rito di passaggio anche, per il giovane capitano-narratore: dall’aria mefitica, infetta, uscirà il futuro, temprato.
Barillari ne sa di più, in linea con l’ultima critica inglese. Il racconto dice “un'allegoria perfetta della guerra mondiale che allora imperversava in Europa. Come in guerra, anche sull’imbarcazione l’unica speranza di salvezza sta nel fare con abnegazione e sacrificio ognuno la propria parte”. Scritto e pubblicato, si può aggiungere, negli ultimi tre mesi del 1916. Quando Conrad, prossimo ai sessant’anni, si era già lamentato con molti della propria inabilità da combatente, e il figlio Borys era invece riuscito ad arruolarsi benché minorenne, ed era al fronte.
Il racconto è dedicato ai giovani soldati: “A BORYS E A TUTTI GI ALTRI\ che come lui hanno attraversato\ nella prima gioventù la linea d’ombra\ della loro generazione\ CON AFFETTO”. Sotto il motto: “Meritevoli del mio perenne riguardo”. È “Una confessione”, come dice il sottotitolo, ma anche una celebrazione della gioventù che si avventura, si sacrifica. Una confessione peraltro che non è una confessione. Piuttosto un memoir, nel senso di un racconto di esperienza vissuta. 
Conrad non amava la guerra. Dieci anni prima l’aveva ridotta a illusione e congiura delle autocrazie (“Autocracy and War”, sul conflitto russo-giapponese, che è considerato il suo più importante saggio politico, oltre che lungo, cica 60 pp.). Ma la guerra europea è da combattere sul campo. A un corrispondente scriveva il 28 gennaio 1915: “Sembra leggerezza quasi criminale parlare in questi tempi di libri, storie, pubblicazione”.
Il racconto era stato concepito già quindici anni prima, in quella che pure viene definita la stagione più creativa di Conrad, col titolo “First Command”, ma non scritto. È con la guerra che è venuto fuori fluido, intangibile. Borys tornerà dalla guerra gasato all’iprite e a lungo sotto shock.
Tutti gli editori hanno una “Linea d’Ombra” – Conrad è probabilmente il classico più edito in Italia. L’edizione migliore è probabilmente quella Oscar, di Gianni Celati. Ma non per la traduzione, poco conradiana, come si può vedere leggendo in parallelo. L’ultima, quella di Simone Barillari, che ha curato l’edizione Feltrinelli (dotandola anche delle utili note dell’edizione classica Penguin), scorre più aderente.
La traduzione Einaudi, rinnovata da Flavia Marenco, reca “Una confessione”, il sottotitolo, in copertina. Con la vecchia nota di Cesare Pavese, significativa per Pavese, datata per Conrad, di cui apprezza l’ “onestà”.
Joseph Conrad, Linea d’ombra, Feltrinelli, pp. 180 € 8
Einaudi, pp. 89 € 9
Oscar Scuola, pp. XLI-295 € 6

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