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sabato 28 settembre 2019

La festa è mesta a Hollywood

Tarantino ha sempre invidiato il western all’italiana, Leone e Sergio Corbucci – di Corbucci specialmente fa tessere qui l’elogio. Più che altro perché avevano potuto girarne tanti mentre in America è genere proibito - non è corretto. E se lo fa infine sotto forma di rivisitazione di Hollywood. Tutto corretto, tra bianchi cattivi. Tutti perdenti: al momento del passaggio dal cinema ai serial tv. La vedette Di Caprio, pistolero per finta dei finti western seriali, come il suo servo-controfigura Brad Pitt.
Un monumento a Di Caprio, in una caratterizzazione sfaccettata, cui sarà difficile negare l’Oscar, benché fresco di premio, appena tre anni fa. E al migliore non protagonista Brad Pitt, se non altro per il sacrificio, molto Hollywood post-Hollywood post-vedettariato, dell’ego nella posizione di spalla. 
Un film allegro di mestizia. Di solitudini e fallimenti, nel glamour. Mentre la minaccia incombe, di Charles Manson sui vicini congiunti di Polanski. Con pochissima violenza – quanto basta per innescare l’orgoglio di Manson.
Hollywood privilegia da qualche tempo il suo retroscena: violenze carnali, alcol, droghe, fallimenti milionari, e uno stato depressivo costante. Come una forma di glamour, acida. Tarantino mostra un di dietro del cinema di polvere e cartone. Non esilarante e anzi ridicolo, nella sua superba pocaggine, ma le tre ore di mestizia scorrono lievi. Un film pieno di immagini, che pensiamo di avere già visto – Tarantino si vuole cinefilo, più che drammaturgo – ma forse no.
Quentin Tarantino, C’era una volta a… Hollywood

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