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giovedì 3 agosto 2023

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (533)

Giuseppe Leuzzi


Si scopre per la curiosità di un senatore americano che i colori della bandiera, bianco, rosso e verde, erano i colori della Repubblica Cispadana al tempo di Napoleone. Cosa che si sapeva. Ma che la Cispadana li aveva adottati in quanto colori della Lombardia (la cosa, perlomeno, è spiegata così dal sito del Quirinale, chissà): il verde della guardia civica milanese, dal 1782, il bianco e rosso dell’“antichissimo stemma comunale di Milano” (croce rossa su campo bianco). La Lega non lo sapeva, oppure vanno bene una cosa e l’altra, il leghismo e la bandiera?
 
“Un ponte fra due cosche” è una battuta per il ponte sullo Stretto di don Ciotti, il fondatore e animatore di Libera, l’organizzazione che gestisce i beni sottratti ai condannati per mafia. Un patrimonio enorme, di cui non si conosce la qualità della gestione, né la destinazione dei risultati di gestione. Una gestione peraltro assortita di cospicui aiuti pubblici. Il sacerdote conferma che il Sud è vittima (anche) dell’antimafia. Una camicia di forza.
 
Nella Parigi a cavaliere dell’Otto-Novecento, che molto s’immaginava mondi futuri, un Henry Le Bon (pseudonimo per il re omonimo, Henry VI “Le Bon”) pubblicava nel 1890 un “L’an 7860 de l’ère chrétienne”, in cui s’immaginava gli alimenti sintetici e conflitti giganteschi, tra la Francia e l’Inghilterra, e tra la Sicilia e l’Italia.
 
Il linguaggio dei gesti
“È dimostrato che, da sempre, si è attribuita al movimento una forza immediata: la capacità di intendersi attraverso i movimenti, infatti, venne prima del linguaggio. Un’intesa più che sufficiente per un contatto, spesso più comprensibile della stessa parola esplicita. Il fim muto e il teatro Kabuki ne sono una prova” – Ernst Jünger, “La forbice”, § 99.
È il linguaggio del Sud, che si vuole più economico. Quindi espressione del fanientismo meridionale - è topos anche del western, per semplificare l’indolenza chicana. Ma più articolato e  significativo di quello parlato, che si disperde tra dialetto e lingua, nelle forme dialettali e nel dialetto italianizzato. Più comprensibile o più carico di senso, un gesto, un messaggio forse indolente o forse in vece di una parola che non si trova, forse di un giro di parole.
Ma era arte discorsiva, ora non più, sacrificata alla modernità – alla forma compiuta, anche se inespressiva o poco espressiva, di valore legale. Oggi, per via social, in forma prevalentemente di eufemismi, inversioni, paradossi, interrogative, interrogative negative. Cioè parole non solo insignificanti (non o poco significanti), ma incerte, e come un rifiuto del linguaggio, della comunicazione. Una non assunzione di responsabilità di quello che si intende dire, che viene lasciata all’interlocutore – che è una funzione del linguaggio, ma ancillare, non se ne è la parte costituente. Ed è il rifiuto di responsabilità che invece si imputa – si imputava - al “linguaggio del Sud”.
C’è anche una “linea della palma” linguistica, che è montata al Nord, che ha soggiogato il Nord? La “linea della palma” che monta era già troppo pretendere in termini di codici mafiosi – il Sud non dovrebbe pretendere troppo di sé, non conta nulla.
 
Il tempo del Settentrione
Leopardi aveva antevisto anche questo. In più passi dello “Zibaldone”, 867, 2333. Il primo riferimento, 867, è molto chiaro, 
dopo un’estesa disamina del perché le civiltà, gli imperi, fioriscono e poi decadono, a opera dei barbari – nel quadro del pessimismo della storia: “Che vuol dire che i cosiddetti barbari… hanno sempre trionfato de’ popoli civili, e del mondo?... Vuol dire che tutte le forze dell’uomo sono nella natura e illusioni; che la civiltà, la scienza ec. e l’impotenza sono compagne inseparabili…”:“L’Europa tutta civilizzata sarà preda di quei mezzi barbari che la minacciano dai fondi del Settentrione”.  Conclusione ribadita nel “Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani”: “Sembra che il tempo del settentrione sia venuto. Finora ha sempre brillato e potuto nel mondo il mezzogiorno. Ed esso era veramente fatto per brillare e prepotere in tempi quali furono gli antichi. E il settentrione viceversa è propriamente fatto per tenere al di sopra ne’ tempi della natura de’ moderni”.

Un pensiero che Leopardi potrebbe avere mediato da Herder, dalle “Idee per la Filosofia della storia dell’umanità”, del 1784-1791. Che trovava disponibile alla lettura in francese nel 1828, nella traduzione di Edgar Quinet.
 
La mafia onnipotente è dell’antimafia
Salvatore Lupo non lo dice più, si è forse stancato, ma ne dà i dati di fatto in breve, presentando la sua ricerca sul “Mito del Grande Complotto”, dello sbarco Alleato in Sicilia in combutta con la mafia, e la liberazione dell’Europa dal nazifascismo come opera sicula, cioè della mafia – d’intesa e in alleanza con la mafia. Mito che, Lupo non lo dice ma serve ricordarlo, è stato a lungo, e perdura, nella sinistra politica in Italia, nel Pci e negli scrittori che si legano al Pci, come Camilleri. Ma anche in chi, come Sciascia, può essere stato tutto ma sicuramente non sovietista, non uno che credeva tutto in chiave di “guerra fredda”.
Il “complotto” nasce con Michele Pantaleone, persona peraltro stimabile, un politico siciliano e gionalista, interlocutore di Carlo Levi, combattente anti-separatista e antimafia, nel 1968 sul quotidiano di Palermo “L’Ora”, in una sua inchiesta di quattro puntate (a quattro mani con “Castrense Dadò”, pseudonimo dell’avvocato Nino Sergi), e poi, quattro anni dopo, nel primo libro della storia su “Mafia e politica”, pubblicato via Levi da Einaudi.
Non se ne parla successivamente molto, se non in chiave “guerra fredda”, nel Pci e dintorni. Fino alla Commissione Parlamentare Antimafia. Sarà la prima Commissione Antimafia, presieduta dal senatore democristiano Luigi Carraro di Padova, a fare nel 1976 della mafia la mallevadrice, se non l’organizzatrice, dello sbarco Alleato. E poi ancora l’Antimafia di Violante, che pure sapeva di cosa si parlava, interlocutore di Falcone e di Caponnetto, il cui rapporto finale, nel 1993 (“nel momento della massima minaccia portata da Cosa Nostra alla Repubblica”) ripeteva la conclusione di Carraro. Malgrado ci fosse già una documentazione storica, pubblica, che la smentiva.   
 
Cronache della differenza: Napoli
“Napoli è certamente la città i cui abitanti parlano più ossessivamente di sé, e della collettività, dell’ambiente, della cultura e della storia di cui fanno parte”, comincia cosi Fofi, napoletano eccellente, la recensione-stroncatura sul “Sole 24 Ore Domenica” di “Napoli stanca. 17 scrittori raccontano la città nascosta”, l’antologia curata da Mirella Armiero. Cui il gironale dà il titolo: “Scrivi Napoli, dici Napoli, ma come stanca Napoli!”. Fofi è arrabbiato, si sente. “In questo senso sì, Napoli stanca, come dice il titolo”.
 
Un solo atout Fofi riconosce alla sua città, che Napoli è un po’ Milano per “una comune massiccia «gentrificazione»”. Che si pensa sia un complimento: il risanamento dei quartieri degradati. O è un’altra polpetta avvelenata? Il risanamento dei Quartieri Spagnoli, via dei Tribunali, Spaccanapoli si è fatto come a Roma Panico e dintorni, o Trastevere, o il Pigneto: sloggiando i residenti – magari alloggiandoli in abitazioni più morderne e confortevoli, ma in ambiente estraneo, ovviamente periferico.
 
In contemporanea con Fofi sul “Sole 24 Ore”, “Le Monde” fa anch’esso colpa alla città di essersi “gentrificata”, di non essere più sporca e cattiva ma tutta bed and breakfast, sulla via di diventare un’altra Barcellona, un hot spot per turisti. Si stava meglio quando si stava peggio?
O, con un detto calabrese: falla come vuoi, sempre è cocuzza – non si sfugge al “destino”?

Voltaire non dà molto tempo a san Gennaro: “Quando la ragione arriva, i miracoli se ne vanno”. Tanto più che non porta prosperità - nessuno, né nobili né borghesi né popolani, ci guadagna niente. Mentre si sa che “Dio non fa miracoli a data fissa, e che non cambia le leggi che ha imposto alla natura”. Ma lo diceva, “Conformez-vous au temps”, verso il 1765, duecentocinquant’anni fa. Poi si dice che Napoli manca di resilience.

Ha l’onore di essere elevata tra le capitali mondiali dei ladri (vory in russo) da Le Carré nelle memorie, “Tiro al piccione”, §18 – insieme con Varsavia, Madrid, Berlino, Roma, Londra e New York.

  
“Città andalusa sperduta in Italia” la definisce Elisa Chimenti, la scrittrice-imprenditrice scolastica a Tangeri in Marocco, napoletana di origine, emigrata in Marocco col padre medico all’inizio del Novecento, nell’opera inedita “Miettes”, briciole (Chimenti, che si sentiva molto napoletana, scriveva in francese, lingua franca di Tangeri), assicura la sua biografa per l’“Enciclopedia delle donne”, Maria Pia Tolentino, che ne cura le carte.
 
Avellino ha una novità, un assessore al brand. È Barbara Politi, giornalista e conduttrice tv in Puglia, dove vive, premio Ischia per il giornalismo enogastronomico: assessore alla Promozione del brand Avellino. Un Sud 5.0, avendo saltato le precedenti tappe? La fantasia non difetta.
 
“Nella sola provincia partenopea ci sono più beneficiari di Lomardia Piemonte e Veneto, messe assieme”. Nella Campania più beneficiari di Lombardia, Piemonte, Veneto, Emilia-Romagna Liguria. Battere il Nord non è difficile se ci riesce Napoli da sola - la “città metropolitana” certo. Il beneficio è del reddito di cittadinanza. Poi si dice che a Napoli non sono bravi cittadini.
 
La ministra Calderone può dire: “In Campania, regione col più alto numero di percettori del Reddito di Cittadinanza, sono stati censiti 108 mila posti di lavoro disponibili”. Il redattore che ne raccoglie le dichiarazioni specifica tra parentesi: “circa 25 mila percettori”. Ma è saltato un 5: sono, erano, 255 mila.
 
Il paradosso, per così dire, era materia di più inchieste del “Sole 24 Ore” trent’anni fa, e forse anche quaranta: che a Napoli capeggiavano la classifica dei disoccupati (allora c’era un punteggio, una graduatoria per anzianità, e ai primi veniva segnalato il maggior numero di offerte) sempre gli stessi nomi. Disoccupati di mestiere - i “disoccupati organizzati” di cui non si rise, anzi il Pci se ne fece una forza.
 
Fa sempre senso, ancora a quarant’anni di distanza, ripubblicandosi le lettere di Tortora dal carcere, leggere che tutti i giudici che lo perseguitarono, in Procura e nei Tribunali, fecero carriera. Il presidente del Tribunale di primo giudizio, di cui si tace il nome tale è l’infamia, si produsse in uno sfottente: “Tanto perché non dicano che non do spazio alla difesa”. Questa strafottenza è “molto napoletana”.
 
Fecero tutti carriera, i perscutori di Tortora. Uno dei procuratori fu pure eletto al Csm, senza vergogna. Lo stesso avverrà nel 2006 con Calciopoli, il processo  alla Juventus, tutto napoletano, inquirenti, Carabinieri compresi, giudicanti, e giornalisti accusayori. Invece il giudice che in Appello assolse Tortora, Michele Morello, venne isolato nel palazzo di Giustiza napoletano.
 
Anche questo è “molto napoletano”, il giudice onesto, e il boicottaggio. Qualche anno dopo ci sarà la serrata dei Procuratori contro un capo della Procura, Cordova, un calabrese, che pretendeva che lavorassero, ogni giorno – che aprissero qualcuna dei due milioni di pratiche arretrate.

leuzzi@antiit.eu

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