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mercoledì 13 marzo 2013

A Sud del Sud – l’Italia vista da sotto (164)

Giuseppe Leuzzi

Lo Stato mafioso
I giudici sono Stato, certo.

Il fatto più emozionante della giornata in cui un giudice ha detto che la trattativa Stato-mafia c’è stata, e che i carabinieri e il senatore Mancino vanno processati in combutta con Riina, è costituito per il “Corriere della sera” dai complimenti di Massimo Ciancimino al Procuratore Di Matteo.  “Sono sinceri”, insiste l’emozionato Giovanni Bianconi. Poi dice che la mafia vince – il Sud è rassegnato.
Ma, in tema di complotti, chi ci manda questi Bianconi? E perché?

Il giudice Di Matteo ha accettato i complimenti di Ciancimino, criminale acclarato e presunto mafioso, figlio e erede di un capo mafiosissimo. Gli ha stretto vigorosamente la mano, assicura l’emozionato Bianconi. Quando si faranno i processi per la Procura-mafia, per la mafia non perseguita in tutti questi anni, bisognerà ricordarsene.

Dunque i carabinieri in combutta con Riina e Ciancimino ci sono, la trattativa tra Stato e mafia (e Berlusconi) c’è stata. Lo dice un giudice di Palermo, Piergiorgio Morosini. Anche se senza motivo, dice lui stesso, l’accusa non avendo “neppure affrontato il tema delle fonti di prova, limitandosi a generiche affermazioni su finalità e approdi dell’inchiesta”.
Che dirne? Sembra inventato.  Ma il “Corriere della sera” dice che Piergiorgio Morosini esiste, anzi che è “un giudice particolarmente preparato e rigoroso”.

Però, con tutti i Bianconi, è vero che sono i giudici di Palermo a proteggere la mafia. Da una quindicina d’anni ormai: niente condanne, niente processi, niente indagini. La mafia è come se non ci fosse a Palermo.

In un senso la mafia è politica, nel senso più ampio, migliore anche, della parola. Non di partito, o di corrente, o di questo o quel procacciatore di voti corrotto, ma del sentimento politico del tempo.
C’è un sentimento della politica diverso nelle varie epoche storiche. La mafia vi si adegua, o ne è espressione – sempre al suo modo, certo: violento. Un tempo vicina alla proprietà, quando la proprietà era da proteggere, con guardianie e comparaggi, contro furti, abigeati, grassazioni. Poi, quando il sentimento si è fatto popolare e antipadronale, da parte dei vescovi, dei grandi partiti e anche dei carabinieri, contro la proprietà – la mafia dei terreni e degli appalti. Quindi, quando si privilegiò, nelle leggi e nella pratica, negli anni 1980 l’arricchimento facile con la finanza, con le reti bancario-finanziarie (le anonime del diritto svizzero). Sembra faticare a entrare nel sentimento politico dell’antimafia, quarta esperienza di questo lungo  dopoguerra, ma ci ha provato e ci prova, coi pentiti e con sue proprie onlus.
Mai arcaica, come vorrebbe la vulgata (Sciascia) della mafia vecchia o mafia buona.

La Brigata Catanzaro
Della Brigata Catanzaro, che nel 1915-18 sostenne molte sanguinose battaglie, per due anni senza un turno di riposo, e la notte del 15 luglio 1917 si ribellò, finendo decimata, Mario Saccà completa la storia, su “Calabria Sconosciuta” n. 136, ricordando che dopo la guerra si distinse apponendo il 16 novembre 1919 una grande targa in bassorilievo alla memoria di Guglielmo Oberdan. Nella Caserma Grande di Trieste, o Caserma Oberdan, nella quale era alloggiata. Pagata col soldo dei soldati della Brigata, è da supporre. Su un’iniziativa che si fa risalire a uno dei fanti, Baldassarre Monteleone. Un’opera, dice Saccà, “che finalizza il sacrificio della Catanzaro e quello di Oberdan all’ideale compimento del disegno risorgimentale”.
Ma Oberdan fu giustiziato, dopo un vero procedimento, seguito da tentennamenti, dagli austriaci per diserzione e cospirazione, avendo confessato il disegno di attentare alla vita dell’imperatore. La brigata Catanzaro fu invece decimata all’ingrosso dai carabinieri la mattina del 16 luglio, prendendo a caso 28 fanti, e fucilandoli – altri 123 furono mandati al Tribunale di guerra. Senza nemmeno un vero plotone d’esecuzione, tipo mattanza nella tonnara. Malgrado le tante onorificenze, di reparto e singole, che la Brigata aveva accumulato nella guerra. E senza mai un giudizio successivo di riabilitazione. Malgrado l’ottimo comportamento della Brigata dopo Caporetto e fino alla vittoria.
La storia della rivolta è stata ricostruita per la prima volta da Irene Guerrini e Marco Pluviano, due giovani storici friulani, nel 2007. Corrado Tumiati, il medico-scrittore che ha rievocato la rivolta nel racconto “Errori” (ora in “Zaino di sanità”), un racconto mozzafiato, dice che  “la Brigata Catanzaro fu certamente una delle più gloriose e delle più provate nella grande guerra. Il suo proverbiale eroismo la condannò a due anni ininterrotti di guerra carsica. Stremata, mutilata, consunta, risorgeva dal sangue e dalla morte con energie nuove”. D’Annunzio rievoca l’episodio nei “Taccuini”, anche lui commosso, benché i rivoltosi avessero tentato di dirigersi proprio contro di lui, nel “campo di aviazione” adiacente al loro acquartieramento.
Secondo una remota pubblicazione dell’Ussme, l’Ufficio storico della stato maggiore dell’esercito, “Brigate di fanteria” (1928), vol. 6, p. 63, la Brigata Catanzaro ebbe nei primi due anni e mezzo della guerra (le perdite del 1918 sono dette irrisorie), 162 ufficiali morti e 281 feriti gravemente, 4.540 soldati morti, 12.500 feriti.

Milano
I giudici Oscar Magi e Maria Teresa Guadagnino condannano Berlusconi in una causa nella quale l’accusa aveva chiesto l’archiviazione. Condannare Berlusconi pretestuosamente per fargli vincere le elezioni? I giudici forse non lo sanno, ma questo è Milano.

Dove i giudici però questo lo sanno: che si condanna veramente per un fatto vero – a Berlusconi non mancheranno.

La giudice Guadagnino, quella che condanna Berlusconi ovunque a Milano (tre processi in contemporanea), deve condannare l’arcipotente Rizzoli-Corriere della sera per le foto rubate nella casa dello stesso Berlusconi e pubblicate nei suoi settimanali. La condanna a 10 mila euro. Per foto pagate 300 mila euro. Senza nessuna eco a Milano, quando c’è in ballo il “Corriere della sera” si tace. Non per omertà, naturalmente, quella c’è solo al Sud.
In un altro sistema giuridico – qualsiasi altro - si condannerebbe la giudice per complicità.

“Guai a deludere il milanese!”: non è lusinghiero il ritratto che Longanesi fa(ceva) di Milano, città anche sua dopotutto, in un articolo della raccolta “Fa lo stesso” (anni 1931-1953), spregiativamente intitolato “Tarantella”. I milanesi non amano la loro città, ma prendono il tram la mattina “come i pionieri dell’operosità, convinti di essere i soli, in Italia, a recarsi al lavoro in quest’istante. La loro coscienza è limpida, il loro alito è fresco…”.

Molto milanese, autocongratulatorio, è però anche il piccolo napoletano che lo scrittore avrebbe incontrato in tram la mattina a spulciare gli annunci sul giornale in cerca di lavoro. E che quattro anni dopo fotografato sullo stesso giornale quale amministratore delegato.

A Milano, dice Longanesi in un altro articolo della stessa raccolta, “non si pensa in grande”. È questo che non la fa una grande città, “come a Londra, come a Parigi”, dove ci si sente di casa anche se smarriti: “Qui tutto è casuale, contraddittorio,  slegato, abbandonato, senza una guida, senza un criterio, senza un motore centrale… Milano è un grosso corpo senza testa”
È una deriva, dice Longanesi: “Un tempo, molti anni fa, prima del fascismo, Milano era una città europea; era una delle grandi città europee”.

In grande no, Milano continua a pensare. Dopo le dimissioni di papa Ratzinger, ha progettato di conquistarsi anche il papato. Col suo cardinale, Scola, che nessuno candidava. E con altri due cardinali lombardi, Nicora e Coccopalmerio. Il secondo, sconosciuto, presentando come “il discepolo del cardinale Martini”. Il primo invece era noto per essere all’origine dello scandalo Vatileaks. Insieme col fido, in Opus Dei, Gotti Tedeschi.
Milano pensava che col “rito ambrosiano” della giustizia – pettegolezzi e indiscrezioni – si sarebbe messa nel sacco anche la chiesa, dopo l’Italia.


E poi, Nicora e Coccopalmerio sicuramente avrebbero impallinato Scola, che è di Comunione e Liberazione. Milano è anche questo, luogo di (piccole) vendette.

Capitale Milano comunque è, ma della giustizia politica. Che è la valvola della corruzione - quando la giustizia è corrotta tutto è corrotto. Sebbene, ambrosianamente, sotto le specie della lotta alla corruzione. E in questo terribile: selettiva, massiccia sempre, con i suoi giornali e la sua buona coscienza, spietata, nessuno è mai sfuggito alla sua giustizia, solo Berlusconi – che però è milanese. Si può anche essere assolti, magari a Roma in Cassazione, ma Milano ha già distrutto.

La giustizia politica è facilmente identificabile a Milano nelle sue componenti. È identificabile nei processi che non si fanno – magari processando invece qualcuno che non c’entra, un punching ball che si trovi lì appeso. Nell’affare Sme (punching ball Berlusconi) Milano evitò di processare Prodi e De Benedetti, due democristiani. Nel caso Fassino-Unipol (idem) evitò di processare due ex compagni, Fassino e Consorte. Nel caso Rizzoli-Corriere della sera, quindici anni fa, non si sa – massoneria? Voto di scambio?

leuzzi@antiit.eu

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