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venerdì 7 febbraio 2014

L’Io filosofico è da ridere

“Oggi ognuno deve munirsi di filosofia, per difendersi dalla filosofia”. L’Io? “Poiché qui siamo al di là del pensabile – ed abbiamo ormai abbandonato la categoria delle categorie, il genere più alto, l’essere – io vorrei negare anche questo a tale egoità assoluta, nella misura in cui essa è il fondamento dei fondamenti. Cosicché, alla fine, non rimanga neppure il nulla - ciò sarebbe ancora troppo, e troppo determinato, perché il nulla esclude il tutto – ma rimanga infinitamente meno di nulla e più di tutto: in breve, l’infondatezza dell’infondatezza”. Il vizioso circolo virtuoso. O un caleidoscopio, una pirotecnia, anche qui come in tutto Jean Paul. Un divertimento, che è impossibile (inutile) compendiare. Ma alcune cose vanno dette.
Un libello satirico, a uso quindi del lettore comune, sulla questione dell’idealismo incipiente - e di Dio - a fine Settecento: c’è di che sognare – il mondo va ‘n’arreri, avrebbe detto il coevo Tempio, poeta siciliano in Sicilia. All’origine dell’irrisolta questione dell’io e del mondo, dell’essere e del nulla, da due secoli ormai e più. Una sfida per la curatrice, Eleonora de Conciliis - che la vertiginosa postfazione di Hartmut Retzlaff, uno dei direttori del Goethe di Roma, rischia di vanificare. Ma de Conciliis si diverte, e il risultato è un gioiellino.
Contro Fichte ,”l’annientatore “, sotto le vesti del tutto-Io, di creatore della “ideale finitezza dell’infinito: “Egli (pensato come assoluto) ha creato cielo e terra ed ogni cosa, compreso Fichte in qualità di osservatore di tale creazione, e dunque con quello è svanito anche questi”. L’iniziatore in effetti della lunghissima curva depressiva della filosofia, sempre più incarognita alla ricerca del nulla. Questo è un problema in sé, ma anche a scriverne: “In quanto Leibgeber io sono finito, mentre come creatore di Leibgeber sono infinito”. Jean Paul torna all’“acetifico satirico” della prima giovinezza. Con la consueta versatilità linguistica. Sulla traccia del ciceroniano “non c’è nulla di strano che un filosofo non abbia sostenuto”. Ma senza filistea sufficienza, entrando con acuti fendenti nel mezzo della cosa. 
In questa vecchia polemica contro il nascente idealismo, Ferraris e i suoi hanno una miniera intonsa. C’è anche Darwin, il medico e naturalista Erasmus, nonno del “Darwin”.- con una non banale notazione del linguaggio vuoto con parole piene: “Se uno ha avuto a lungo in bocca una pipa piena, nel buio non si accorge immediatamente di aver smesso di fumare”, nella parafrasi jeanpauliana. E non solo Fichte, c’è già, in nuce, Heidegger. La “Chiave” fichte-leibgeberiana parte domandandosi anch’essa, con Pilato a Praga – ma la location non importa – “che cos’è la verità”. Con lo scongiuro (un segno di croce?): “Il cielo – che sono io – mi consenta di divenire comprensibile”. Per un improbo: “Non-Io e Io, oggetto e soggetto, sono i gemelli simultanei della Aseità”. C’è anche Dio-madre, con tutto l’occorrente: “La ragione esige un Essere incondizionato, una realtà infinita che pone se stessa, il cui prodotto è ogni realtà finita”. Questo Essere “i parroci di campagna chiamano Dio dei Padri”, e qui sbagliano: “In quanto incondizionata, la ragione può cercare la verità assoluta – sua figlia – soltanto in, e presso la madre, cioè in se stessa, nel puro Io assolutamente causante. Se si pone questa bambina fuori di se stessa, la si rende madre di sua madre”.
Retzlaff ci trova tutto il primo Marx, gran lettore di Jean Paul: l’alienazione e il feticismo della merce, “i termini cardine della critica delle merce nel primo volume del «Capitale»”, molti studi sono stati fatti in argomento. E poi dopo: “L’uso metaforico delle Charaktermasken (termine che origina nella Commedia dell’Arte), come parametro di una sociologia dei ruoli ante litteram, e il termine Fetichismus per descrivere l’autoriduzione delle società evolute a un primitivismo percettivo, risultano decisive per la sociologia del tardo Marx”. Ci trova anche Foucault, i capitoli centrali de “Le parole e le cose”, a proposito della “fine del pensiero classico”, quando il pensiero, nel passaggio dal valore d’uso al valore di scambio, dalla cosa in sé rappresentabile alla rappresentazione della cosa, ”non è più congruente con il sapere pragmatico e con la sopravvivenza del mondo reale”. Nonché un’anticipazione dell’inconscio, il “risvolto” della ragione. E le varie “miserie” su cui Marx si è esercitato? E Nietzsche? Ben prima dello Übermensch Jean Paul aveva coniato l’Überchristentum, come quello per il quale “al posto di un Dio, il cuore possiede un Cristo, anzi persino una Maria”. Quanto a Fichte, il suo tutto Io è progenitore, non fortuito, della “ideoplastia” di Bozzano – il pensiero creatore del parapsicologo genovese, a cui tutto è riconducibile, anche la materia.
De Conciliis rileva, a sostegno dello spessore filosofico delle apparenti stravaganze jeanpauliane, l’intimo legame dello scrittore col filosofo F.H.Jacobi, cui il libello è dedicato: “Un primo, anziano doppio di Jean Paul”, come lui polemista agguerrito, nemico dei sistemi logici, contemporaneista acuto, dopo che i due avevano condiviso nell’infanzia e la prima giovinezza l’ossessione dell’aldilà e il soprannaturale. Il Leibgeber che spinge Fichte, e l’Io di Fichte, al ridicolo è naturalmente Jean Paul – alla lettera è l’incorporatore, quello che dà vita, il plasmatore. Il libello è successivo alla polemica – il secondo dei tanti Streit accademici teutonici, dopo quello delle Facoltà, che coinvolse Kant - sull’ateismo di Fichte, nel 1798-99, che portò all’allontanamento del filosofo dalla cattedra a Jena. Ma non è ingeneroso. Né superficiale – anche se indigeribile alla filosofia laureata: Jean Paul amava Fichte, e Fichte rispettava lo scrittore, comprese le ambizioni filosofiche della “Clavis”. E anche questo è un altro miracolo: non c’è più la filosofia di una volta?
Jean Paul, Clavis fichtiana seu leibgeberiana, Cronopio, pp. Pp. 131 € 12,50

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