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domenica 2 febbraio 2014

Due solitudini, a quattro mani

“Focu focu! focu meu! focu randi meu!” è intercalare calabrese di scongiuro e lamento. Ora desueto – anche se esplose l’altra estate a un bar da designer a Catanzaro, minimal e freddo, a opera della cassiera tacchi dodici e ombelico scoperto, che, chiamata al cellulare mentre proponeva con lo scontrino le cartoline di un’amica concorrente a miss (“Non c’è bisogno di spedirle, non ci vuole il francobollo, basta una firma, ci penso io a inoltrarle, eh sì, bisogna combattere”), si scusò, e a chi la chiamava oppose un allarmatissimo “Focu meu! Focu meu! Fora gabbu”, fuori malocchio, magari all’aspirante miss. “Fuoco grande” è titolo editoriale, di Calvino, che ritroverà il dattiloscritto nel lascito di Pavese e ne sarà affascinato.
Riedito dieci anni fa con notevole apparato da Mariarosa Masoero, 40 fittissime pagine per 60 di testo, il racconto è di un’incapacità di amare, esito delle violenze in famiglia. O di  solitudini parallele. Esplose in un “ritorno a casa”, a Maratea. Un racconto che – altro inciso, pertinente - può avere ispirato il più noto “Simultan” di Ingeborg Bachmann, il titolo originario della raccolta della scrittrice austriaca ora nota come “Tre sentieri per il lago”, che anch’esso si svolge a Maratea, insolita location, con copione quasi identico. Famoso subito, alla pubblicazione nel 1959, con copertina importante di Guttuso, per essere stato scritto da Pavese a quattro mani con Bianca Garufi, segretaria della Einaudi a Roma nel 1945, di cui naturalmente lo scrittore s’era infatuato - poi andata sposa a Felice Chilanti. Un capitolo lui, “Giovanni”, uno lei, “Silvia”, lo stesso plot visto da lui e visto da lei - un meccanismo che due anni prima Giono aveva inaugurato in “Les Âmes fortes”. Su un’idea di Bianca Garufi.
La scrittura fu appassionata per sei-sette settimane tra febbraio e aprile 1946. Contornata da una corrispondenza febbrile, puntuta, piena di cose. Compresi i “rolling stones” del proverbio inglese caro a Erasmo e agli psichiatri della schizofrenia, “pietra che rotola non raccoglie muschio”, in anticipo quindi su Jagger. La febbre era alta: già da prima, da subito, da settembre 1945, Bianca aveva monopolizzato i diari (“Il mestiere di vivere”) e le lettere di Pavese. Che a lei si ispirava per le poesie “La terra e la morte” (“poesie d’amore” - Calvino) e i “Dialoghi con Leucò”, pubblicati nel 1947. Quando uscirono i “Dialoghi”, Pavese li dedicò privatamente a Bianca. Ma intanto la fiamma si era spenta. Il racconto giacque non finito – cioè finito, è un racconto compiuto, ma non rispetto al progetto originario, di un romanzone borghese pieno di vicissitudini.
Pavese intitolava il racconto “Viaggio nel sangue”. E così è: la dose autobiografica è notevole. Nell’infatuazione prima: “Silvia era nata di terra e di sangue come penso alle volte che nascano i cavalli o i tronchi più belli dei boschi”. E poi nel disinganno. Come se Pavese avesse trovato nella co-autrice (che poi, dopo un’analisi con Ernst Bernhard, sarà stimata analista junghiana), la stessa incapacità di amare, anche se non  della stessa natura: una cosa che viene anch’essa dal “sangue”. È Silvia che glielo dice: “Hanno una loro sostanza le cose, a volte non si può scappare”.
Cesare Pavese-Bianca Garufi, Fuoco grande

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