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domenica 27 ottobre 2019

Cinque punti per la storia di piazza Fontana

I “Cinquant’anni della bomba di piazza Fontana” del sottotitolo passano in silenzio. 17 morti e 88 feriti, per i quali solo parzialmente si è fatta giustizia. A denti stretti, e con un flair forte di sazietà: basta con queste storie. Il racconto di Deaglio si segnala - oltre che per essere corposo ma leggibile per tutte le trecento pagine, tante sono le sorprese, ancora oggi, della “affaire” - per essere solitario.
Il ricordo brucia, evidentemente. Non nella memoria di chi legge, ma certamente in quella di chi agì. Sempre viva, nelle istituzioni se non nelle persone. Perché di questo alla fine si tratta: la strage è stata, non c’è scampo, di Stato. Non l’unica, e forse nemmeno la prima. I tanti processi ne hanno accertato solo porzioni. La storia peraltro non si è nemmeno tentata, e nessuno sembra intenzionato a farla: succede quando le fonti non sono percorribili. E le fonti non lo sono quando il segreto è di Stato. Non c’è segreto che tenga in Italia? C’è, ce ne sono tanti, mai precisamente svelati, a partire dai briganti e i pugnalatori, cioè da quando l’Italia esiste.
La ricostruzione di Deaglio si basa sulle cose note, raccontandole con un filo persuasivo. Che parte dal depistaggio immediato, allo scoppio della bomba, e attraversa i tortuosi processi che vi furono imbastiti. Una frenata catastrofica alle ambizioni e all’immaginazione dell’Italia, che si voleva invece avventurosa, al culmine dell’ascesa, economica e politica, seguita alla Ricostruzione dopo la guerra. Per approdare, tra mille “deviazioni” (resistenze), alle colpe di Freda e di Ventura, e di Giannettini, cioè del Sifar. Con la coda inevitabile della “vendetta” dei benpensanti, specie della sinistra, più ancora del Pci, e delle istituzioni incontrollabili. Manovrando, attraverso i tanti volenterosi esecutori tra i Carabinieri e i giudici, contro Sofri. Col falso processo che si sa, giudicato ben sette volte, e che si fa finta non ci sia stato. Basta la pagina 253 per capire di che filo l’esito è stato tessuto: un colpo di qua e uno di là. Beffardo, come è delle cose dei servizi segreti, che si dicono “deviati”, ma giusto per salvarsi la coscienza.
Alla ricostruzione questo un po’ manca: la vendetta dei benpensanti, soprattutto della sinistra, soprattutto del Pci, contro i “gruppuscoli”, contro i leader di opinione. Si colpì Sofri, tardivamente, a quasi vent’anni dal delitto Calabresi, per fastidio. Come capro espiatorio in teoria della deriva terroristica che non si sapeva contrastare (si estinse di suo). Di fatto per il fastidio di una opinione liberata, ideologica e anche politica, che non si tollerava e inconsciamente si temeva.
Le prove storiche
Alla vicenda in sé manca l’essenziale: manca la prova del complotto. Ma solo se si vuole ripercorrere le cronache, sia pure di controinformazione, del tempo. Mentre più di un fatto consente già di mettere la vicenda in prospettiva. Ne elenchiamo cinque.
La bomba di piazza Fontana, alle 16.37, è una di una serie. In contemporanea, a Milano e a Roma. A Milano una seconda bomba, alla Banca Commerciale in piazza della Scala, non esplose. Fatta inspiegabilmente brillare agli artificieri dalla Procura e dalla Questura di Milano concordi, è probabile fosse stata temporizzata per lo stesso orario, poco dopo la chiusura pomeridiana.
A Roma alle 16.55 una bomba esplose nel passaggio sotterraneo della Banca Nazionale del Lavoro, tra l’entrata in via Veneto e quella in via San Basilio, con 14 feriti. Alle 17.22 una seconda esplosione avvenne davanti al Vittoriano, l’altare della Patria, alla base del pennone. Alle 17,50 una terza bomba esplose di fianco al Vittoriano verso il Campidoglio, al museo del Risorgimento, con 4 feriti.
C’è stato un disegno negli attentati. E una organizzazione. Anche a presumere che le tre bombe di Roma siano state collocate dalla stessa persona.
È possibile che gli attentati si volessero dimostrativi. Al 16.37 la banca dell’Agricoltura doveva essere chiusa. Ma non è detto: la bomba al sottopassaggio della Bnl a Roma poteva comunque fare vittime.
La Questura e la Procura di Milano indirizzarono le indagini immediatamente sugli anarchici. In questo senso fu informato il governo.
Il pomeriggio del 12 dicembre 1969 era in corso al Viminale una riunione di routine del Comitato sull’ordine pubblico e la sicurezza, un organismo consultivo interpartitico. Poco prima delle 17 il ministro Restivo si assentò, richiesto dal suo segretario, che era già uscito sollecitato da un usciere, scusandosi per notizie urgenti in arrivo. Pochi minuti dopo, mentre la notizia di piazza Fontana prendeva a circolare, il segretario del ministro rientrò e disse: “Sono stati gli anarchici”.
La notizia di piazza Fontana circolò nella riunione dopo quella della Bnl a Roma, e dei feriti.
Il ministro era Franco Restivo, dc, siciliano. Il segretario era Peppino Insalaco, che sarà sindaco di Palermo per breve tempo, dal 17 aprile al 13 luglio 1984, quando il consiglio comunale che lo aveva eletto lo dimissionò, su decisione di Ciancimino, e il 12 gennaio 1988 sarà assassinato per strada, dalla mafia.
Anche l’assassinio del commissario Calabresi si può analizzare.
Calabresi era stato prima e fu dopo piazza Fontana il principale assertore di un disegno sovversivo anarchico all’ufficio politico della questura di Milano.
Il suo assassinio non fu indagato. Mai un ufficiale di Polizia era stato assassinato senza una reazione adeguata del corpo. Peggio: l’indagine ci fu, ma indirizzata verso sicuri non colpevoli.
Quando l’opinione politica benpensante giudiziaria e di sinistra convergette verso la soluzione Lotta Continua, la deposizione di Marino fu raccolta irritualmente dal colonnello dei Carabinieri Buonavenura. Su istruzioni della Procura di Milano. I protocolli che regolano le testimonianze di chi accusa autoaccusandosi, come è stabilito dai protocolli originari della materia, americani, vogliono la verbalizzazione alla presenza di più soggetti, inquirenti o giudicanti, e la testimonianza è valida se resa in un’unica seduta, non a tappe o a rate. L’autodenuncia di Marino è stata invece “curata” dal colonnello per due settimane, e rettificata in più punti dalla Procura di Milano.
Marino, testimone d’accusa contro Sofri, è un pentito speciale anche in questo: rimesso in libertà, ha ripreso la sua vecchia attività di paninaro in piazza, a  Bocca di Magra, senza gli accorgimenti d’obbligo a protezione dei testimoni d’accusa. Non escludendo cioè la sua eliminazione per vendetta, qualora avesse deciso di dare una diversa versione della sua testimonianza - da attribuire cioè per vendetta a un qualche amico di Sofri che si fosse soltanto avvicinato, anche inavvertitamente, a Bocca di Magra.  
Nel 1992 il colonnello dei Carabinieri Elio Dell’Anna, in servizio a Trapani, scrisse in un rapporto riservato che il giudice istruttore di Milano Antonio Lombardi, lo stesso che aveva rinviato a giudizio Sofri per l’omicidio Calabresi, gli consigliava di indagare Lotta Continua anche per l’omicidio quattro anni prima a Trapani di Mauro Rostagno. La cosa fu fatta, con l’incriminazione di Chicca, la compagna di Rostagno, ricorda Deaglio, per la ragione che Chicca, dopo l’assassinio di Mauro, si era rifugiata da Sofri per protezione…
È caratteristica dei servizi segreti, in tutte le spy stories, la beffa. L’irrisione: le spie si divertono. E le provocazioni – uccidetemi p. f. il testimone che ho fabbricato è una delle più ricorrenti, così diventa inscalfibile. Ma la vicenda, a un approccio storico, può prescinderne. La storia può invece servirsi della testimonianza cui Dell’Anna, ultrassessantenne ormai in quiescenza, fu chiamato nel vero processo Rostagno venti anni dopo, nel 2012 – ventiquattro dopo l’assassinio, il 26 settembre 1988. Contro i veri responsabili, le mafie che Rostagno denunciava dalla sua emittente.
Dell’Anna disse in tribunale il 12 giugno 2012 che non aveva mai indagato la mafia di Trapani: nessun giudice glielo aveva chiesto, e i Carabinieri non ne avevano ragione. Poi si diede a negare di avere avuto la confidenza di Lombardi o di averne scritto, malgrado la cosa risultasse verbalizzata, trincerandosi dietro una serie interminabile di “non ricordo”.
Il contesto era la reazione contro il Sessantotto, il movimento di contestazione giovanile, analogo ai tanti oggi in atto in Libano, in Cile e in Iraq, nella piega che aveva preso nell’Autunno Caldo del 1969, di rivendicazioni sindacali apparentemente inarrestabili.
Nella storia che se ne è fatta finora, quella labile e affrettata delle cronache giornalistiche, la vicenda ha tuttavia un nome significativo: piazza Fontana è l’innesco della “strategia della tensione”. La strategia è sintesi giornalistica fornita all’“Observer”, il settimanale britannico, da uno special correspondent, dizione che usava e usa nella stampa britannica per fonti “bene informate”: collaboratori conosciuti e dall’identità certa, ma per essere, più che giornalisti, persone addentro ai segreti, spie o per qualche ragione vicine alle spie, con accesso a fonti speciali e non testimoniabili. È suggestiva, oltre che veritiera, e in essa sembra esaurirsi tutto il bisogno di sapere. Mentre è possible e sarebbe necessario saperne di più, la verità della cosa.
Enrico Deaglio, La bomba, Feltrinelli, pp. 295, ill., ril. € 18

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