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venerdì 23 settembre 2022

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (504)

Giuseppe Leuzzi

La biografia di Carlo Levi, l’unica, di Gigliola De Donati e Sergio D’Amaro, lo nomina “Un torinese del Sud”, per le “cronache” da Eboli, i viaggi in Sicilia e Calabria (“Le parole sono pietre”), e il “Telero” che dipinse su richiesta di Mario Soldati per il centenario dell’unità, ora a Palazzo Lanfranchi di Matera, nel quale ha rappresentato la “questione meridionale”.

“Cristo s’è fermato a Eboli”, scritto dieci anni dopo il confine in Lucania e a fascismo già morto, è in realtà un racconto, e anzi un romanzo. È un documento di denuncia indirettamente, c’è molta, bizzarra, empatia fra lo scrittore e i suoi personaggi. Bizzarra per essere Levi torinese ed ebreo, molto distante dal Sud profondo e dalle piaghe cristiane.

 Sarà probabilmente la nota distintiva di questa campagna elettorale – se il voto andrà nel senso dei sondaggi: una battaglia per il voto al Sud considerato da tutti, indistintamente, come “voto di scambio”. Per un do ut des, anche senza la concorrenza esterna delle mafie. Come se il Sud fosse ancora come lo voleva Achille Laro a Napoli settant’anni fa: medicante. Nessun’altra proposta o progetto, solo un po’ di soldi, un po’ di più dei concorrenti.

Singolare anche l’assenza, da quarant’anni ormai, dalla Seconda Repubblica di tipo ambrosiano, di leader politici di qualche consistenza provenienti dal Sud. Non dalla Puglia, dalla Sicilia, dalla Sardegna, dalla Campania, perfino dalla Basilicata, che ne erano state fertili in precedenza – Mattarella non fa testo, il presidente è “sradicato”. Nei quarant’anni di leghismo il Sud ha perso la parola.

 

La scoperta del Sud

La scoperta di essere del Sud - di essere diverso, inferiore, antipatico - è stata tarda, diciamo del 1980. Prima Milano era “tutti noi”, per un’identificazione totale: una meta, un faro. La scalfariana “capitale morale”, di cui sapevamo tutto, anche la programmazione del cinema Pasquirolo.

Personalmente, è stata forse di un anno prima, del 1979. Comunque, nitidamente, nel rifiuto di Giorgio Bocca di dialogare. In precedenza si era vissuti nel fastidio di sentirsi dire, a Londra e a Parigi, “lei non sembra italiano”. Si viveva, si viaggiava, facilmente, senza “bagaglio”. Poi subenterrà il “lei non sembra medidionale”, e non ci sarà più nulla da fare.

Il rifiuto si produsse nella redazione milanese. Malgrado la sollecitudine di Silvia Giacomoni, persona colta, di formazione cosmopolita, allora compagna o moglie di Bocca. Benché lui stesso si fosse distinto come ospite entusiasta di Giacomo Mancini, politico e grande notabile calabrese. Malgrado la notoria provenienza dall’Eni, dal settore estero dell’Eni, dove si parlava inglese e si girava il mondo, per analizzare le politiche locali - il mondo di sotto, il Terzo mondo.

La provenienza dall’Eni fu letta dapprima come causa dello sgarbo, il gruppo petrolifero si faceva in quei terribili anni 1970 della disinformazione (all’insegna della controinformazione….) il covo di ogni turpitudine. Ma allora anche Bocca veniva dall’Eni, dal “Giorno”. E sapeva che non era niente vero. Anche perché al “Giorno” era stato libero come non lo sarà più: l’Eni lo aveva lasciato libero di scrivere tutto quel che voleva e non gli ha mai chiesto un favore – come non lo sarà dopo, benché forse non lo abbia saputo, quando dovette appoggiare Ventriglia, De Mita, il Banco di Roma, e anche Andreotti. Di questo si può dare anche testimonianza personale, avendo dovuto respingere le lamentele contro i suoi servizi in due casi, la Russia di Breznev, e la Spagna di Franco che non moriva - del resto c’era poco da proteggere, contrariamente a quello che si pensa e si scrive: giusto dire quattro parole all’addetto culturale o stampa dell’ambasciata delegato alla protesta, che le sapeva estemporanee e d’occasione ma le scriveva compunto e chiudeva la pratica.

Il petrolio non c’entrava. Era l’humus leghista: Bocca era stato in Calabria e non gli era piaciuto niente, come poi tutto il Sud, quando Scalfari lo delegherà. Perché era sceso prevenuto. E Milano - di cui eravamo invaghiti - con lui, più non sopportava i meridionali. Sentiva suoni cupi, puzza d’aglio, e mani tese. Bossi non era emerso - si fingeva ancora studente universitario, a quarant’anni, benché marito e padre, e organizzava finte lauree. Ma l’humus era diffuso e fertile.

 

La formazione del Sud

Si prenda l’Italia dopo l’unità: è più o meno omogenea, quanto a produzione (pil) pro capite, nelle statistiche storiche della Svimez. Le statistiche allora non erano affinate, ma sono attendibili. Le tavole Svimez trovano conferma indiretta nei calcoli più attendibili, che lo storico dell’economia della Iulm Emanuele Felice sintetizza così: “All’Unità d’Italia il Pil del Mezzogiorno era circa l’80-90 per cento della media italiana; ovvero [...] fra il 75 e l’80 per cento di quello del Centro-Nord”.

È vent’anni dopo, con gli effetti delle prime leggi unitarie, che il divario si manifesta, nel 1880. E in poco tempo comincia la corsa all’indietro: a fine decade, 1890, il pil delle regioni meridionali è già cinque punti sotto quello del Centro-Nord. Poi è una valanga, negli “anni di Giolitti”, che molti storici vogliono i più proficui per l’Italia: trent’anni dopo, nel 1920, il divario era cresciuto al 75 per cento.

Nel 1940, dopo i vent’anni del fascismo, era al 57 per cento. E nell’immediato dopoguerra, fra oscillazioni anche ampie tra un anno e l’altro, scenderà al 52 per cento, anche meno, del 1960.

In tutta la storia unitaria il pil pro capite del Mezzogiorno è cresciuto sempre meno di quello del Centro-Nord. Con l’eccezione del quindicennio 1960-1974, che corrisponde politicamente al primo centro sinistra, Dc-Psi (una coalizione che aveva anche in posizione eminente politici di provenienza meridionale, Moro, Colombo, De Martino, Mancini), e finisce con la prima crisi energetica, le domeniche a piedi eccetera: risalì rapidamente al 61 per cento, e a questo livello si mantenne per tre-quattro anni – e ancora nel 1985. Successivamente il rapporto ha sempre ondeggiato sull’asse 57-59 per cento (più impressionante è il divario fra l’aera più ricca dell’Italia, il Nord-Ovest, 16 milioni di persone, 34 mila euro di pil pro capite nel 2020, e il Sud, isole comprese, 21 milioni di persone, 14 mila euro).

L'Italia del dopoguerra, la Repubblica, che ha posto il Meridione in agenda, anzi al centro dei piani di sviluppo, almeno inizialmente, si può dire che ha fatto bene al Sud, ma solo per un periodo breve, il quindicennio 1960-1974.

La lettura più comune di questo divario è che il Centro-Nord era già prima dell’unità - e ha consolidato poi l’apertura - sull’onda dello sviluppo europeo, come tecniche di produzione e penetrazione dei mercati, mentre il Sud se ne è tenuto fuori. Ma nel primo secolo della storia unitaria, dal 1860 fino alla fine della seconda guerra mondiale, il pil pro capite in termini reali ristagna per tutta l’Italia. Il Sud avvia la sua marcia del gambero all’interno di un’economia che non si espande come produttività e come distribuzione del reddito. È dal baratro del 1945 che l’Italia produttiva fa il Grande Balzo, costante e molto elevato, fino al 2010. Con il Sud che, come si è detto, ha trovato anch’esso una marcia in più, ma solo per un breve periodo – per un breve governo.

 

Sicilia

Si vuole, curiosamente, sempre speciale: diversa, imprevedibile, “traggediatrice”, perversa, eccetera. Per il bene e per il male, cioè. Anche nelle piccole cose. Ora si discute, discutono i siciliani, lo scrive Merlo su “la Repubblica”, se l’isola non ha “buttaniato” il capo dei 5 Stelle Conte, che nella campagna elettorale nell’isola è stato letteralmente osannato. Cioè non l’ha “sputtanato”, preso in giro, messo alla berlina.

Il voto, si sa, è imprevedibile. Ma è solo in Sicilia che Berlusconi fece l’en plein di tutti i seggi al voto: 61 eletti su 61 collegi. In due elezioni successive. Anche questo è unico. E anche imprevedibile, contro tutte le leggi della probabilità.  

“Il Consorzio Dop Sicilia”, per i vini, “nato nel 2012, ha una rappresentatività della filiera del 94 per cento”, spiega Laurent Bernard de la Gatinais, un signore bretone che persiede Assovini Sicilia: “Esiste un’altra regione in Italia con una coesione e dei numeri simili? Siamo un case history. La Sicilia è un case history”. Questa è certo una singolarità, la Sicilia dei vini, e il signore bretone che la presiede. Ma non se ne può dire (pensare) male, e quindi non “esiste”, come si dice a Roma.

Un siciliano su sette riceve il reddito di cittadinanza. Com’è possibile? Al diritto non c’è limite, all’applicazione delle leggi: l’ingegno non manca.

Il partito Democratico in Sicilia ha pensato di fare causa ai 5 Stelle per “violazione dell’applicazione della legge elettorale”. Cioè per avere deciso di andare alle elezioni da soli invece che col Pd. La fantasia al potere?

“La Repubblica-Palermo” si scandalizza: boom di domande nell’isola a Ferragosto per il “sostegno psicologico” – previsto dal decreto governativo di “ristori” del 25 luglio: 13 mila domande in due settimane. Ma non è ben inferiore al boom nazionale, 207 mila domande? In rapporto alla popolazione è lo 0,260 per mille contro lo 0,345.

Carlo Dionisotti ha, nella famosa sua “Geografia e storia della letteratura italiana”. La “Storia troiana”, in latino, di Guido delle Colonne (Guido Giudice), siciliano, che dice “fondamentale nella letteratura italiana del Duecento, e in Italia e in Europa per oltre due secoli”. Ma non c’è una via Guido Giudice a Palermo, nemmeno a Catania. C’è Guido delle Colonne, a Palermo, Messina, Gela e Roccalumera. Ma niente di più.

Oltre duemila operatori della formazione quest’anno non hanno ricevuto lo stipendio dalla Regione, e quando l’assessore si è impegnato a sbloccare gli stipendi, “le pratiche da completare per avviare i pagamenti sono rimaste bloccate perché il funzionario è partito per le ferie”. Non c’è rispetto per le regole più che in Sicilia – e nei siciliani dell’alta burocrazia nazionale, segretari, direttori generali, giudici. Delle regole del non fare.

leuzzi@antiit.eu

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