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domenica 15 maggio 2022

Svevo raccontato da Svevo

Che cos’ha Svevo in comune con Proust? Nulla. Che cos’ha Zeno in comune con Bloom, il protagonista di Joyce? Questo Svevo non lo dice ma lo sottintende: sì, Freud, ma allora è Joyce che ha preso l’abbrivo da Svevo, che sapeva di Freud e di tedesco, mentre Joyce non sapeva il tedesco e ridicolizzava Freud - ammesso che ne sapesse qualcosa. La questo, la “gloria”, viene a 64 anni, dopo venti pagine di rifiuti e disattenzione.  
Le venti pagine sono l’autobiografia che l’editore Morreale, che aveva ripubblicato “Senilità”, e poi “La coscienza di Zeno”, infine con successo, richiese a Svevo nel 1928 per le riedizioni. Svevo la commissionò a un giornalista suo amico, Giulio Cèsari, e poi la riscrisse.
Molto, e in dettaglio, è della vita di Ettore Schmitz, ragazzo educato in Germania, che presto dovete guadagnarsi da vivere, alla sede triestina della Banca Union di Vienna. Lettore ammirato di Francesco De Sanctis e di Carducci – che gli ritardò la “scoperta” di Manzoni. Lettore-sperimentatore di Jean Paul da ragazzo, e poi di Flaubert, Daudet, Zola. Collaboratore assiduo, da bancario, de “L’Indipendente”, glorioso quotidiano socialista di Trieste, con cronache da “vice”, di libri e mostre, e con qualche racconto. Nel 1893, a 32 ani, il primo romanzo. “Una vita”, e il primo fallimento. Che però Svevo ora di successo introduce così: “‘Una vita’, che il Crémieux considera il parallelo italiano della ‘Educazione sentimentale’ del Flaubert…”. A cui fa seguire l’apprezzamento di Montale, 1925. Lo stesso avverrà sei anni dopo con “Senilità”: Svevo ora di successo minimizza gli insuccessi. E questo è già un dato notevole.
Subentra un periodo di silenzio. Svevo riflette sulla lingua, trovandosi impacciato a esprimersi in italiano – a “manzoneggiare”, si direbbe: “Non si può raccontare efficacemente che in una lingua viva, e la sua lingua viva non poteva essere altro che la loquela triestina”. L’impeto artistico Svevo intanto traspone nella musica, entrando come secondo violino in un quartetto “di buoni musicisti”. Deve andare a Londra se mesi l’anno per lavoro e impara l’inglese, a lezione privata da Joyce. Scopre e apprezza Freud. Durante la guerra ne traduce anche “l’opera sul sogno”. È Joyce a riaccendere la fiamma della scrittura: “Ebbe subito un grande affetto per ‘Senilità’. Di cui ancora oggidì sa qualche pagina a memoria” – “‘Una vita’ gli piacque meno”. E con la pace ritorna la voglia: “Nel diciannove s’era messo a scrivere ‘La coscienza di Zeno’. Fu un attimo di forte travolgente ispirazione. Non c’era possibilità di salvarsi. Bisognava fare quel romanzo”.
Il resto è noto. Cioè no. “La coscienza di Zeno” fu pubblicato nel 1922. Meno che a Trieste trovò un’incomprensione assoluta ed un silenzio glaciale”. Svevo lo manda a Ettore Janni del “Corriere della sera” con una lettera, “il Janni non rispose”. Due anni più tardi va a trovare, sempre al “Corriere della sera”, Giulio Caprin, per i buoni uffici “di un comune amico”: Caprin dice subito a Svevo che il giornale “non disponeva di abbastanza spazio per occuparsi del suo libto”, tuttavia “più tardi gli dedicò due righe tra i ‘Libri ricevuti’”.
Italo Svevo, Un profilo autobiografico, free online

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