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martedì 11 luglio 2017

L'infelicità non smonta Rousseau

A fine 1757 Rousseaulice decide di scrivere all’amata Sophie d’Houdetot, madre e moglie felice, un trattatello sulla felicità, in forma di lettere. Un progetto del genere da parte di un pessimista radicale – o Rousseau è un ottimista, radicale? – promette bene. Ma dopo poche schermaglie l’assunto è dimenticato. La felicità, parte Rousseau col dire, è materia fertile di filosofia. Ma con un handicap: “Ognuno insegna agli altri l’arte di essere felici, nessuno l’ha trovata per se stesso”. L’infelicità viene dall’essere estranei a se stessi. E qui finisce il trattato. Anzi no. Finirà col consiglio della solitudine. Temperata – altra perfidia? – dale opere di bene. L’asunto è dimen ticato dopo alcune pagine di ghirigori su amore e virtù, da libertinismo settecentesco, e l’assicurazione: “Sarò più felice che di avervi posseduta”.
Questa speciale galanteria non è tutto. L’egotista qui, semmai si potesse, abusa di se stesso. “Provo in me l’invincibile impulso del genio”, si assicura, subito dopo essersi complimentato per l’assalto fallito. Si sorpassa, come si dice: non c’è complimento che si risparmi – a se stesso. L’amata ne è solo afflitta, come falso scopo. Con una lingua però, malgrado il compiacimento, tagliente. E con  due punte memorabili, che costituiranno il fulcro della “Professione del vicario savoiardo”, al libro IV dell’ “Emilio”, qui in forma molto espressiva se non controllata.
In quatro righe sono liquidati Berkeley, d’Holbach, Malebranche, Diderot, Leibiniz. Per il vizio dei filosofi , nei termini derisori già di Cicerone e Descartes (“Non c’è massima assurda che qualche filosofo di fama non abbia avanzata”): “L’uno ci prova che non c’è corpo, l’altro che non ci sono anime, un altro che l’anima non ha alcun rapporto con il corpo, un altro che l’uomo è una bestia, un altro che Dio è uno specchio”. Sulla solitudine, anche, la riflessione non è scontata, anzi ha punte acuminate. Come autodifesa. Come mezzo per raggiungere il meglio di se stessi, se c’è.
Il commento e le note d Cyril Morana all’edizioncina francese arricchiscono il trattatello coi debiti di Rousseau verso Seneca e Descartes, col rapporto critico nei confronti di Montaigne, e col russovismo dell’etica di Kant.
La felicità? È all’inizio della seconda lettera, l’inizo della riflessione: “L’oggetto della vita umana è la felicità. Ma chi di noi sa come giungervi?”. Con un abbozzo svagato di una sorta di teoria della dissipazione. Un’anticipazione, volendo, di Bataille. Ma più stoica che cinica, Rousseau si lamenta molto ma non è temperamento depressivo.       
Le lettere non saranno pubblicate prima del 1888. Sulle brutte copie conservate dallo stesso Rousseau. Sophie, pure tanto  cara, le aveva dstrittute, quello era un periodo di scandali a sucessione per il futuro “vicario savoiardo”. Ma non c’è nulla di personale – eccettuato il rifiuto di Sophie a essetre “posseduta”. Ci vuole ben altro che il rifiuto di un amplesso per smontare Rousseau.
Jean-Jacques Rousseau, Lettere morali, Marietti, pp. 128 € 17
Lettres morales, Mille-et-une-nuits, pp. 77 € 2,50

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