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sabato 18 gennaio 2014

A Torino, a Torino – o della dispersione

Titolo civetta. Per un’idea anche accattivante. È la storia di due padri – e dei loro figli: il sarto senza lavoro va a cercarlo a Torino, operaio alla Fiat, è il 1961, proprio mentre l’Avvocato Agnelli abbandona una vita di svaghi per entrare in azienda. Ma poi le vicende Fiat si dipanano, già note.  Non succede insomma molto. Fino a che, quarant’anni dopo, il figlio dell’avvocato non incontra il figlio del sarto, in un tentativo di uscire dalla solitudine e la droga.
Ai due capi la storia si tiene - il film è già fatto (che però evidentemente non si può fare, troppi lutti recenti). La narrazione invece difetta: la “realtà” torinese, e della stessa emigrazione interna, rimane estranea. La cronaca non supplisce, specie quella politica di cui siamo saturi. La scrittura ha bisogno di radici, linguistiche, semantiche, etiche, sociologiche, e di un punto di vista esterno. A cui Calopresti ha curiosamente rinunciato.
“Mimmo Calopresti”, dice il risvolto, “è nato a Polistena nel 1955, ma, bambino, si è trasferito con la famiglia a Torino”. Non basta: non è più calabrese, e non è torinese. Sradicarsi indebolisce. E poi non è più tempo di assimilazioni - non solo per il leghismo, che è più effetto che causa.
Mimmo Calopresti, Io e l’Avvocato, Mondadori, pp. 269 € 17

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