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venerdì 28 marzo 2014

Senza paradosso Borges non si (ci) diverte

Le poesie del triennio 1972-1975, variamente disposte e antologizzata dall’autore in plurime pubblicazioni (in una versione già incluse nei Meridiani), qui riproposte nella raccolta originaria del 1975, in traduzione di Tommaso Scarano, con l’originale. Sono il culmine di una stagione poetica prolifica, successiva a “Elogio dell’Ombra” e “L’oro delle tigri”,  pronuba a “La moneta di ferro” e “La cifra”. Tutte personali sui temi noti dell’autobiografia, la cecità, la famiglia, gli amici, la patria,  l’antichità sassone. Poesia privata, sulla “pena di se stesso”. Con le malinconie metafisiche naturalmente, ma intimistiche. Senza modestia naturalmente, ma senza illusioni.
Un vasto repertorio anche, una partita serrata, un’avventura a largo raggio, non fosse per il tono dimesso, prosaico, della poesia di Borges. Che quando ha un’immagine l’ha ripresa dagli autori amati. Le composizioni più evocative sono “Le quindici monete”, dedicate a Alicia Jurado, una delle tante amiche letterate di Borges, tutte belle, e sue coautrici: ma sono tanka  e haikù, imitazioni di altro genere.
Brillante è ancora il “Prologo” – Borges è un maestro dei prologhi, più di Kierkegaard: “La dottrina romantica di una Musa ispiratrice dei poeti fu quella che professarono i classici; la dottrina classica della poesia come ispirazione dell’intelligenza fu enunciata da un romantico, Poe, verso il 1846. Il fatto è paradossale”. Se non c’è il paradosso Borges non si (ci) diverte.
Jorge Luis Borges, La rosa profonda, Adelphi, pp. 154 € 13

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