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mercoledì 8 luglio 2015

La filosofia può ridere di Eichmann

Lo Hannah Arendt Center riassume nella sua newsletter “Amor Mundi” la polemica che colpi Hannah Arendt alla pubblicazione, ponendola sotto il segno dello humour. Se è bene per un filosofo essere spiritoso e comunque esserlo su certi temi, se certi temi comunque sono e devono andarne esenti. Partendo dall’ammissione che la stessa Arendt fece, a conclusione della polemica, nell’intervista con Günter Gaus il 28 ottobre  1964: “Mi rimproverano per una cosa – e posso anche capirli, in qualche misura – e cioè che posso ancora ridere, non è così? È vero. Ero dell’opinione che Eichmann era un buffone, e le dirò, leggendo gli interrogatori di polizia, 3.600 pagine, molto attentamente, non so quante volte ho riso, ma sonoramente. Ora, questa reazione è ciò che mi viene rimproverato. Non posso farci nulla. Ma so una cosa: sarei probabilmente capace di ridere ancora tre minuti prima (della morte). E questo, dice lei, è il tono: il tono ampiamente ironico. Sì, è proprio vero. Esattamente, il tono è in questo caso realmente l’essere umano. Quando mi rimproverano di avere tra le righe accusato il popolo ebraico, questa è una bugia maliziosa e propaganda, nient’altro. Il tono, invece, è un’obiezione contro di me come persona, e non posso farci nulla”.
Hannah Arendt non dice se ha diritto a essere spiritosa. Dice solo che è fatta così. Ma il riferimento alla “propaganda” (in Israele, n.d.c.) in qualche modo lo dice. L’offesa era aver definito nella corrispondenza (il libro è il rifacimento delle corrisponde sul processo per il settimanale “New Yorker”) Eichmann un “sionista”. Rispondendo a Gerschom Scholem, che glielo contestava, Arendt non si sofferma a specificare che anche lei ha fatto parte e ha lavorato a Parigi per il movimento sionista, ma va diritta al fatto. Che è un fatto grammaticale e sintattico: “Non ho mai fatto di Eichmann un sionista. Se hai mancato l’ironia della frase – che era chiaramente in oratio obliqua, riportando le proprie parole di Eichmann – non posso farci niente”. È vero che c’è gente, anche di grande personalità come Scholem, che è impervia all’ironia.
Scholem diceva di più, rimproverava l’amica di leggerezza, “intendo l’inglese flippancy”, e di mancanza di cuore (Herzenstakt, tatto di cuore). Ma qui la risposta di Hannah Arendt era semplice: “Io non «amo» gli ebrei, né «credo» in loro; io semplicemente appartengo a loro, come un dato di fatto, non c’è da discutere”.
Da testo contestato, anche aspramente, il reportage di Hannah Arendt è passato comunque a classico del semitismo. C’è stata ultimamente una conversione nell’ebraismo, sulla valutazione del  “volenteroso esecutore” Eichmann, e sul processo che lo fece protagonista e quasi artefice dell’Olocausto. Mentre per la filosofa era il caso esemplare di un suo problema peprsonale, da ebrea malgrado tutto tedesca: perché nesuno era colpevole nella Germania del dopoguerra.
Hannah Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, pp. 320 € 10

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