martedì 27 aprile 2021
Letture - 456
Asino
– Tomasi di Lampedusa lo vuole femmina in siciliano
(“Ricordi d’infanzia”): “Attorno caracollavano gli asini (anzi «i scecche»
perché in siciliano l’asino è quasi sempre femminile, come le navi in inglese)”.
La grazia del Nulla
“Non
sono ancora riuscita a capire il suo carattere – dice la bella e indolente
signora Tobler a Giuseppe Marti, l’assistente che serve con fedele riservatezza
la ditta e la casa ormai compromesse e
vacillanti. – È forse magnanimo? O è abietto?” Ma una terza risposta era
possibile, se la signora Tobler avesse letto “Jakob van Gunten”, un racconto
precedente dello stesso suo autore: “È privo di carattere perché non sa ancora
cosa sia un carattere”.
Seducente
e sfuggente, come sempre: che narratore è, Robert Walser? Il breve saggio di
Walter Benjamin. “Robert Walser” - qui ripreso (da “Avanguardia e rivoluzione.
Saggi letterari”) con le note di Hermann Hesse, e il breve saggio di Musil, “Le
«storie» di Robert Walser” - spiega molto. È egli stesso il Buonannulla di
tanta narrativa tedesca, Hebel e poi Eichendorff – cui Benjamin aggiunge
Hamsun. E sa raccontarla, la vita del nulla: scritture labili, in superficie,
di uno che sostiene di non avere mai corretto nemmeno una riga, e tuttavia,
per quanto “involontario” e “trascurato”, un linguaggio “che presenta tutte le
sue forme, dalla grazia fino all’amarezza”.
Non più in catalogo da Einaudi, e ancora non ripreso da Adelphi, questo che è forse il miglior
racconto di R.Walser ha prezzi d’affezione nell’usato.
Con
un saggio conclusivo di Claudio Magris. E una sorprendente antologia (“Assonanze”)
di scrittori su Walser: Seelig, Kafka, Zweig, molto Canetti. Passando da un
iniziale “Walser über Walser”, un’autodiagnosi: “Desidero passare inosservato”.
“L’assistente”
è scritto nel 1908 a Berlino, tra “I fratelli Tanner”, 1907, e “Jakob van Gunten”,
1909, i suoi tre romanzi, o “grandi libri di prosa” come li chiama Carl Seelig,
il curatore, non avendo intreccio, o contrasto (un quarto romanzo, “Teodoro”, scritto dopo il
1920 a Berna, sarebbe disperso in una casa editrice tedesca o svizzera).
Dovendo riassumerlo, è il racconto di una esperienza di lavoro dello stesso Walser, tra
il 1903 e il 1904, presso l’ingegnere meccanico Dubler (la signora Tobler è la
moglie dell’ingegnere), a Wãdenswill, qui Bãrenswill, sul lago di Zurigo, in
una villa con vista in collina, zun
Abendstern, Stella Vespertina. È il racconto di quella sua esperienza: “«L’assistente»
è un romanzo assolutamente realistico”, confiderà a Seelig nelle “Passeggiate”:
“Non ho dovuto inventare quasi nulla. La vita l’ha creato per me”. Walser ci ha
messo un po’ di vita, una scena inerte fa stare godibilmente in piedi.
Robert
Walser, L’assistente, Einaudi,
pp.XVIII + 225 € 7,50
lunedì 26 aprile 2021
Innamorati
S’incontrano ad aprile, si lasciano a ottobre. Il freddo lei preferisce
viverlo a casa sua. Viene dal Nord, un paese che nessuno le ha mai chiesto e
lei non ha detto. Può anche darsi che non si scrivano, e in che lingua poi,
ammesso che lui sappia scrivere? Né che comunichino nell’assenza, per quanto
ora usi il telefono. Ma si ritrovano come se si fossero appena lasciati. Lui
ripassa la calce, sostituisce i legni marciti, fissa i chiodi, la porta tiene
aperta e la finestra per purgare l’aria. Di una casa che non è una casa, ma una
grotta che ha recintato, da tempo immemorabile, vivendo sulla spiaggia, e ora è
suo domicilio. Lei arriva, se non il primo sabato di aprile il secondo, e
riprendono quella loro vita in comune che però è anche in parallelo, mostrandosi
insieme a una certa ora la sera, un tempo da Black ora nel loro locale, o a
tutte le cerimonie, sacre e profane, e talvolta sulla spiaggia, d’estate, la
mattina presto. Lei non disdegna un colpo, pare, con chiunque le va, anche
senza aver bevuto. Ma, se è vero, la storia finisce con l’atto: lei ama lui,
che i compagni d’infanzia ricordano avventuroso e solitario, senza ragazze, e
sospettano impotente, e lui ama lei. Si amano con tenerezza sdolcinata per il
luogo, che è al fondo ancora villico, riservato.
Lei arriva con i pennelli e i colori, e coscienziosa dipinge, su ogni
materiale, anche tavole appena piallate, cartoni, carta, stoffe, a olio, a
tempera, a penna, ad acquerello, limoni, viti, la cuccarda di palazzo Murat,
finestre senza imposte o con la grata bombata, con o senza vite americana, verde
o rossa, saggi di calore nella luce. È il suo secondo mestiere, poiché per sei
mesi è medico al suo paese in ospedale, che esercita senza presunzione,
volentieri cedendo per qualsiasi prezzo i suoi lavori, e quelli non venduti
imballa con cura e si porta dietro alla partenza. Con gli anni gli ha insegnato
a far fruttare i suoi piatti, dapprima su pochi tavoli all’uscio, ora in un capannone
adiacente alla casa-grotta. È l’unica abilità di lui, definendosi egli
pescatore per tradizione familiare, ma di suo incapace di ogni attività, senza
barca, senza soci, di nessuna famiglia, che in un paese è quasi impossibile,
senza amici e senza nemici. Di più ha dovuto lei faticare per vincerne la
rustichezza, che allontanava i clienti. Malgrado la lingua, la professione e le
diverse abitudini, lei ama conversare, guardando gli interlocutori con occhi
allegri. Nicola ha infine imparato a servire, tenendo un aiuto in cucina, ha la
pelle del viso distesa attorno agli occhi e alle narici, e anche lui guarda in
viso le persone quando gli parlano. Gli occhi di Agnes sono oro con riflessi
bruni, sotto la capigliatura biondo paglia, quelli di lui di un azzurro
cristallino.
Per qualche tempo ha portato i figli, in vacanza dalla scuola. Stava
allora in albergo, e con loro faceva la ruota la mattina in spiaggia. La bambina
imparava competitiva, il bambino obbediva senza entusiasmo, insieme riempivano
la spiaggia, a quell’ora ancora vuota, e più per lo sfavillio dello sguardo
sereno e l’agilità che per l’estensione dei corpi. Agh-nes è nella memoria
collettiva questa immagine naturale della bellezza, che la ruota amplia, la bionda
criniera slanciandosi al di là delle lunghe gambe e le braccia, e il comune
rapporto di amore familiare quietamente ingigantisce. Sono Agh-nes e Nicola,
loro e non altri, che il paese e anche i forestieri identificano, seppure non
ne hanno ancora tracciato con precisione la storia. Certi che il desiderio,
quello quotidiano, quasi istintuale, pianticella diffusa, e il rispetto ne
fanno una. C’è riconoscenza, più che invidia, per il loro ruolo modesto e
testato, una promessa di felicità ordinaria proprio nell’amore, che nella
storia del mondo è motivo principale di sofferenza.
Si fanno racconti di vicende ordinarie.
Gli amori modesti non sono infelici.
Ma l’amore no - sterminio al Conservatorio
Lo stesso nome di serie, due
racconti diversi. La prima stagione, 2020, fu sorprendente: si sceneggiava
niente meno che la musica - si poteva fare cinema facendo musica. Questa
seconda è di polpettoni sentimentali. Per giunta adolescenziali – anche di
adulti, anche in condizioni tragiche, ma adolescenti. Quindi turbamenti,
incertezze, disperazioni, consolazioni, abbandoni, ritrovamenti, insomma la
solita storia, rifritta per due ore, da perdere la pazienza, ogni scena a specchio dell’altra. Fra gli stessi personaggi
della prima serie, che quindi, più che deludere, fanno rabbia: anche i musicisti sono da poco, ragazzetti. Ci sono di mezzo pure le madri, del tipo signora mia. Si direbbe uno sterminio, al Conservatorio.
Ivan Cotroneo, La Compagnia del Cigno 2, Rai 1
domenica 25 aprile 2021
Problemi di base - 633
spock
“L’importante è che la scimmia\ non sia scesa
dal cristiano”, Trilussa?
“Siamo tuti i figli di qualcuno”,
Stefano Bollani?
Se le verità non c’è, allora tutto
è falso?
E se tutto fosse falso?
La testimonianza è sempre coraggiosa?
Della verità, o di che?
spock@antiit.eu
La SuperLega dei caratteri nazionali
È curioso, ma la farsa della SuperLega di
calcio è (stata) agitata dalle maschere nazionali – da quelli che una pubblicazione
pure importante, l’Enciclopedia Einaudi, chiama al primo volume “I caratteri
originali”. Che pure si pensavano superate nel lungo cosmopolitismo che ha informato
l’Europa del secondo dopoguerra, concluso con l’interrail, e poi l’Erasmus.
L’improntitudine italiana, la Spagna sempre seduta sull’Invincibile Armada, l’Inghilterra
furba – della pirateria camuffata da righteousness,
o dell’ipocrisia. Con i balcanici in soccorso dei vincitori.
Più curioso ancora è che in queste caratteristiche
“nazionali” sono coinvolti personaggi e interessi remoti e avulsi dall’Europa,
arabi e cinesi: gli arabi fanno gli inglesi, i cinesi gli italiani.
Mancano i tedeschi e i francesi, e anche
questo è indicativo, ma in altro senso: non si mescolano con le mezze calzette
europee, del vorrei ma non posso.
La vita in fuga, acchiappata di corsa
Un film lieve. Di immagini. Anche
nei lunghi dialoghi: gli interpreti, Clive Owen, Jasmine Trinca, Irène Jacob,
sono tutti nelle loro espressioni, come se fosse il loro film. In una rielaborazione
di “Easy Rider”, in una vecchia Vw invece che sulla Harley Davidson, altrettanto
bislacca, apparentemente, e vera.
Un racconto di identità smarrite,
cancellate. Delle persone, lei fobica, lui alcolista. Dei luoghi, abbandonati:
la chiesa di san Vittorino, al km. 72 della Salaria, il villaggio operaio di
Crespi d’Adda, Chateau Thierry nel Nord della Francia, un non-luogo, un parco
acquatico fuori stagione o abbandonato (quello di Guidonia), e il campo
militare di Stanford nel Norfolk, che era il paese dì origine di lui ma dopo la
guerra è stato consacrato alle celebrazioni della vittoria. Tanto più alla
deriva quanto le identità sono, erano, costruite: lei travel blogger - influencer
(propagandista) del settore viaggi, lui giornalista inglese accreditato in
Italia, e i luoghi prestigiosi o animati.
Un caleidoscopio, anche della
realtà come avviene, nel suo farsi, e disfarsi. Tra bugie che non reggono ma
non si sanno evitare – un’autocancellazione al quadrato. La filosofia è però lieve, sotto traccia.
Un racconto originale, della stessa
regista e di Carlo Salsa. Reso con immagini non ricercate, eppure
caratterizzanti.
Giorgia Farina, Guida romantica ai posti perduti, Sky
Cinema
sabato 24 aprile 2021
La sanità del Vaticano a Rotelli-Bazoli
Il Gruppo San Donato (Rotelli-Bazoli, il presidente è Angiolino Alfano, ma è una foglia di fico), milanese, il più grande gruppo sanitario privato della Lombardia e dell’Emilia, si compra anche l’ospedale dell’Isola Tiberina. L’unico rimasto in attività del Centro Storico della capitale. Con piena occupazione dei posti letto. Un reparto di neonatologia da dieci nascite al giorno. Lunghe file ogni mattine per tutti gli ambulatori.
Dopo il San Raffaele di Milano, un altro colpo del cattolicissimo duo Rotelli-Bazoli nella sanità del
Vaticano. Entrambi a prezzi di realizzo. Il San Giovanni Calibita, questo il nome del complesso romano, sarebbe (stato) pagato 200 milioni. Il valore catastale, forse, del terreno, mezza Isola Tiberina, e degli immobili.
In
entrambi i casi chi aveva resistito all’acquisto, don Verzé e il cardinale Bertone
a Milano, l’ordine dei Fatebenefratelli a Roma, sono finiti nel tritacarne giudiziario.
Naturalmente per caso.
A
Milano per mala gestione. Difficile da accertare, e poi non accertata,
ma il Procuratore Greco è stato nell’intervallo cattivissimo. A Roma i preti
che gestivano il Fatebenefratelli non hanno opposto resistenza, né il Vaticano
li ha consigliati in tal senso: è bastato dire che due dei preti amministratori
erano indagati, forse, per pederastia.
Un
tritacarne giudiziario-mediatico, per l’esattezza. A Milano, per don
Verzé-Bertone, il “gruppo” si era premunito comprandosi il “Corriere della sera”.
Il
Gruppo San Donato non ha (non avrebbe) ancora concluso il nuovo acquisto romano, ma ha già provveduto a riorganizzare le attività. Eliminando quelle non abbastanza lucrative. Come ha fatto in Lombardia e Emilia, le
due regioni dove il gruppo è leader nella sanità, le meno organizzate nella prima ondata della pandemia.
A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (455)
Giuseppe Leuzzi
“Esiste
la nostalgia del Sud?”, chiede Valerio Cappelli, romano, a
Sergio Rubini, di Grumo Appula, periferia di Bari. “In senso traslato, per la
fanciullezza che mi riporta a un’età trascorsa lì”, è la risposta: “Come dice
Proust, il passato è fatto di luoghi astratti, ciò che li distingue sono le
persone con cui hai condiviso quei luoghi. Quando non esistono più quelle
persone, non esistono quei luoghi” – “quelle persone”, cioè i familiari, gli
amici d’infanzia.
Veramente
Proust dice e pratica il contrario, ma non
ci sono passati che si rifiutano – non si può.
Una “Anna I, che pure era stata in India”, la bambinaia di un appunto dei “Ricordi
d’infanzia”, là dove descrive il trasloco estivo a Santa Margherita del Belice,
dodici ore di viaggio nella polvere e il solleone, Tomasi di Lampedusa trasforma
– precisandosi il ricordo? - nella versione definitiva del “Gattopardo” in “mademoiselle
Dombreuil, la governante francese, completamente disfatta e che memore degli
anni passati in Algeria pr esso la famiglia
del maresciallo Bugeaud andava ripetendo: ‘Mon
Dieu, mon Dieu, c’est pire qu’en Afrique”.
La
cornamusa viene dal Sud, spiega a Rumiz (“La leggenda dei monti naviganti”) “il
barbuto vignaiolo Nanni Barbèro da Sarzana”: “La cornamusa viene dal mondo
arabo-mediterraneo, e quando arrivò in Spagna prese il nome di gàita. Poi viaggiò ancora. È arrivata in
Scozia e Irlanda nel Settecento, dall’Appennino”. Almeno quella.
“Costava
poco”, ecco la chiave, “al contrario del violino. Così i nordici l’hanno fatta
venire dall’Italia”.
Calvino e il Sud
A
proposito di Calvino e Vittorini, Elsa de’ Giorgi, che li conosceva bene, e di
Calvino fu anche la materna amante, dice alla fine del suo “Ho visto partire il
tuo treno”: “Il letterato Vittorini” non “attraeva fino in fondo” Calvino. Più
in generale: “Per la verità, se si toglie Verga, al quale peraltro preferiva
Svevo, Calvino soffriva qualche conflittualità col sud”.
Perfino
col paesaggio: “Fui io a imporgli la contemplazione del paesaggio meridionale.
Sosteneva che la bellezza costiera è la prerogativa ligure e della Provenza,
prima che del meridione d’Italia”. Preconcetto, per un precedente: “Mi
raccontava come la prima volta che aveva visitato il sud era stato colto
da disturbi viscerali imponenti,
diagnosticati psicosomatici, tanto aveva sofferto il ribrezzo della gente che
viveva in ozio per la strada e all’elemosina”.
L’elemosina
al Sud per la verità non usava – eccetto, forse, che a Napoli. Ma questo è
plausibile: non molti a sinistra conoscevano la povertà, de visu, per pratica.
Qualcosa
però non gli tornava, a Calvino: “Lo intrigava e lo incuriosiva il rapporto dei
meridionali con le loro donne del nord: Mimise con Guttuso, e Ginetta che
conosceva meglio per frequentare i Vittorini” a Milano. Casi di mésalliance? Interraziali?
Il
brigante Garibaldi
Il “cippo” di Garibaldi ai piani
d’Aspromonte in Calabria, dove fu ferito con due pallottole mentre tentava di
prevenire lo scontro armato con le truppe piemontesi, è ora una costruzione in
pietra, ferro e cemento, molto chiusa, tipo mausoleo e poco significativa, ma
usava essere fino all’inaugrazione del monumento quindici anni fa, un pino
enorme, a base biforcuta, con una cavità, una bruciatura, dove i proiettili del
generale Cialdini che ferirono l’Eroe dei Due Mondi si sarebbero conficcati.
Come di un carbonaio qualsiasi, vittima del fuoco amico-nemico, di una
sparatoria fra compari, di un alterco fra ubriachi, di una vendetta. Oppure
colpito come un bandito.
Non si è riflettuto a questo, ma fu un’azione
anti-brigantaggio. Con i metodi che il generale Cialdini aveva applicato ai briganti. Era il 29 agosto
del 1862. Era cioè nel tempo della prima guerra contro i briganti. Che lo stesso
Cialdini, inviato espressamente da Torino, dal re Vittorio Emanuele II, aveva
aperto un anno prima. Con metodi così brutali che lo si era dovuto sostituire
subito, dopo appena sei settimane, con il generale Lamarmora. nel luglio di un
anno conduceva.
Lo spiegamento di forze contro
Garibaldi, comprese le guardie civiche, o Guardia Nazionale, di Pedavoli e Paracorio
che consentirono ai “piemontesi” di stanarlo, era quello della lotta ai briganti.
Storia facile del ritardo del Sud - 2
Il
fossato sarà allargato e approfondito con l’unità, dopo un primo, brevissimo,
periodo di espansione. Con la lunga stagnazione avviata dal “corso forzoso” del
1866. Più tasse, fino al “macinato”. Più debito. Meno investimenti pubblici. Appropriazione
e svendita, durata fine a fine secolo, dei beni ecclesiastici, “la maggior parte
dei quali era situata nel Mezzogiorno”, erano per il Sud il “terzo settore” di
oggi, “con la conseguenza che si registrò un maggiore drenaggio di capitali dal
Sud”. L’impoverimento fu generale. Ma di più in agricoltura, e quindi al Sud:
“Fu l’agricoltura a sostenere la maggiore pressione fiscale”. E poi l’abbandono,
l’emigrazione, dalle regioni alpine e appenniniche, e presto, in massa, dal Sud
– l’Italia, il debito, il corso forzoso, si sosterranno con le rimesse degli
emigranti…. L’emigrazione che sempre
priva dele energie migliori.
Cipolla
lo dice, e lo certifica. Ma poi ha una resipiscenza: “Gli storici non hanno ancora
spiegato, in maniera convincente, la ragione per la quale due aree contigue
imboccarono strade tanto diverse”, dopo l’unità. Ripete che il divario era
antico. E nota che “al momento dell’unità”, il “dualismo era incontrovertibile”:
tutti gli indici, natalità, mortalità, alfabetizzazione, infrastrutture,
manifatture, reddito pro capite, “erano favorevoli alle regioni settentrionali”.
Ma non vuole dire che il corso forzoso e le politiche doganali del Regno
svuotarono il Sud. Finisce di occuparsene, in breve, in tutto un paio di pagine,
rilevando con soddisfazione che la Repubblica ha cambiato, un po’, sembra che
abbia cambiato, la deriva: “Mentre alla vigilia della prima Guerra Mondiale si
poteva valutare il ritardo del Sud in mezzo secolo, oggi il ritardo si è
ridotto a circa venti anni”. E conclude rifacendosi ai termini delle analisi del
sottosviluppo del Terzo Mondo allora ancora in auge: tra Nord e Sud d’Italia
non è un caso di “dualismo”, di sistemi economici diversi e incoerenti, ma di
“sviluppo ineguale”, nell’ambito di uno stesso “modello di sviluppo”, da colmare
con apposite politiche di indirizzo e aggiustamento
Oggi,
nel 1990. Allora, nel secondo dopoguerra
e fino agli anni 1980, probabilmente grazie all’impulso della Cassa del Mezzogiorno, che
si è dismessa con ignominia ma senza colpa, e di cui una storia resta ancora da
fare – a trent’anni da quando lo storico ne lamentava la mancanza. Modellata
nel 1946 sulla Tennessee Valley Authority del presidente americano F.D. Roosevelt,
che tanto aveva contribuito a tirare gli Usa fuori dalla recessione post crac
del 1929, con un migliore equilibrio territoriale e sociale. Il fatto è, notava
lo storico pavese, che “per la prima volta dall’unificazione, il Mezzogiorno
d’Italia uscì dal suo profondo isolamento e sperimentò una crescita del reddito
uguale alla media nazionale”. E oggi 2021?
(fine)
Sicilia
Volendo
fare il Balzac a Palermo, ne “Il mattino di un mezzadro”, uno dei quattro
“Racconti”, Tomasi di Lampedusa si arrischia a dire che nel 1901, “in un paese
come la Sicilia”, l’economia “era, come nelle città-stato antiche,
esclusivamente fondata sull’usura”.
Nelle
città-stato no, e neanche in Sicilia probabilmente. L’economia degli
aristocratici, forse, dei nullafacenti.
Non
gli piaceva molto, la Sicilia, al nobiluomo sfaccendato infine autore del
“Gattopardo”. Nello stesso racconto, “Il mattino di un mezzadro” (o “I gattini
ciechi”), avendo dato a un ragioniere “teneri sentimenti” (è uno di casa,
“impiegato nell’amministrazione Salina ai tempi burrascosi del vecchio principe
Fabrizio”) specifica: “Varietà umana rarissima in Sicilia”.
Nello
stesso racconto, ambientato nel 1901, garantisce che “impunito era, allora,
motivo di estimazione, l’aureola dei Santi siciliani essendo sanguigna”.
Verga,
Pirandello, lo stesso Capuana, Tomasi di Lampedusa, la “robba” fanno oggetto di
spregio. Non c’è lavoro onesto, c’è accumulo sordido e avarizia. Tutti aristocratici
snob (ma non è una contradictio in terminis?)
gli scrittori nell’isola.
Ragusa,
Modica, Scicli, Santa Croce Camerina, Donnalucata…. Una miniera, aperta da
Sironi e Carlo degli Esposti, il regista e il produttore di Montalbano. Una
riserva di turismo integralmente inventata e alimentata, senza alcun impegno
locale, al regista e al produttored dei “Montalbano”, un lombardo e un
emiliano.
Catania,
a lungo centro industriale e agrumario dell’isola, è ora un deserto. Della farmaceutica
e della meccanica non è rimasto nulla. Sopravvive solo StMicroelectronics,
joint-venture italofrancese a capitale pubblico. Le arance vengono da Ribera e
altri luoghi dell’agrigentino. La geografia economica è mobile, basta poco.
L’agrigentino
è stato l’ultima grande area d’emigrazione negli anni 1990, con la chiusura delle
ultime miniere, quelle di salgemma dopo quelle di zolfo, e l’abbandono dei
fosfati. Con l’agrumistica a Ribera, si è inventata e sviluppata l’uva Italia a
Castelvetrano. Perfino il deserto di Bronte si è rivitalizzato, attorno ai
legnosi pistacchi. E la valle dei Templi ora si riconosce per quello che è, un
miracolo di conservazione. Chiudendo la favola di Agrigento, dove nessuno andava,
dagli anni 1950 prototipo senza più dell’abusivismo edilizio.
Quanto
del boom dell’agrigentino e del
ragusano è basato sull’effetto Montalbano, un effetto di autostima? Il
ragusano, un deserto polveroso, ha tradotto l’insolazione in motore di sviluppo.
Con poca acqua si fanno due e tre raccolti l’anno, di primizie e produzioni tardive.
La calcinata Siracusa ancora negli anni 1990 è probabilmente il caso più
riuscito in Italia di turismo culturale. Senza i danni del turismo di massa, ma
sostenuto, tutto l’anno.
Un
sicilianismo diffuso, messo in circolo dalla lirica siciliani degli esordi, con
presa ampia, è “disio”. Si potrebbe identificarvi l’isola, desiderante, quindi inappagabile.
“Non
solo sono artisti come gli antichi greci, ma anche ospitali come i Saraceni e
fastosi come i Normanni” – Alexandre Dumas dei siciliani.
Catania,
nota Carlo Levi a passeggio per la via Etnea, ama le “tipizzazioni”, che dice
“una delle tendenze dell’ellenistico spirito catanese”: “C’è, pare, chi passa
il suo tempo a creare nella realtà dei tipi, influenzando e foggiando, secondo
un suo piano, qualche sua vittima, per il solo piacere di poterla descrivere”.
Bronte
è in Esiodo, “Teogonia”, un ciclope, che
con i fratelli Sterope e Arge fabbricò la folgore di Giove. Figli, allo stesso
modo dei Titani, di Urano e Gea, del cielo e della terra.
leuzzi@antiit.eu
Il Gattopardo sono io
La riedizione dei “Racconti”
dell’autore (postumo) del “Gattopardo” si fece a suo tempo, cinque anni fa,
perché si poteva disporre nell’integralità dei “Ricordi d’infanzia”, la parte più
estesa della raccolta – collaziona anche i tre racconti della prima edizione:
“Lighea”, “La gioia e la legge” e “I gattini ciechi”, l’ultimo scritto
dell’autore del “Gattopardo”, marzo-aprile 1957. La vedova era intervenuta
pesantemente nella prima pubblicazione, 1961, dice Gioacchino Lanza Tomasi, che
ha voluto la riedizione e l’ha curata con la moglie Nicoletta Polo, sui
“Ricordi” – aveva anche cambiato il titolo dei “Gattini ciechi” in “Il mattino
di un mezzadro”: questa riedizione è più lunga di un buon quarto. E in effetti
un altro Tomasi di Lampedusa emerge, ma non più allettante.
Tomasi, dice il figlio adottivo
ed erede Gioacchino, è un autore in
progress, a mano a mano che se ne decifrano le carte, “la sterminata mole di
libri e carte sparsi nel palazzo di via Butera”. Decise di “scriversi” dopo la rilettura di
“Henry Brulard”, i “Ricordi di egotismo” di Stendhal. Ma questi “Ricordi”,
tanto dettagliati quanto acritici, ne fanno un non affascinante passatista,
prigioniero di un’infanzia perduta per inettitudine di generazioni, compresa la
paterna e la sua. “I genitori dello scrittore vissero soprattutto sulla dote di
Beatrice”, annota di passata Gioacchino, della madre dello scrittore - e non
seppero gestirla, disperdendola in liti giudiziarie e in rendite pubbliche
rimborsate alla fine della guerra in lire svalutate.
L’apertura è promettente. Tomasi
ha perduto la casa della vita e dei sogni nei bombardamenti del 1943, e ora non
ne ha più una: “Tutte le altre case (poche del resto, a parte gli alberghi)
sono state dei tetti che hanno servito a ripararmi dalla pioggia e dal sole, ma
non delle CASE nel senso arcaico e venerabile della parola. Ed in specie quella che ho adesso, che non mi piace affatto, che ho
comperato per far piacere a a mia Moglie e che sono stato lieto di intestare a
lei, perché veramente essa non è la mia casa”.
Molto diretto. Ma i ricordi sono
poi degli ultimi fuochi del feudo, che la borghesia smantellava assecondandone
i complessi di superiorità: servitù, banchetti, e debiti. Della Madre e del
Padre maiuscoli, tanto quanto inetti. Arrivando a Santa Margherita del Belice,
al palazzo con trecento camere, il paradiso della Mamma e quindi della sua
propria infanzia, Giuseppe nota “lo smisurato paesaggio della Sicilia del
feudo, deserto”, ma nulla più, è solo una notazione geografica. Si leggono
questi ricordi, così autogratificanti, perfino esaltati, come lacerti di un
tempo e una storia non gloriosi. Di un’incapacità, non di un destino avverso.
Perfino ottusa.
L’interesse si sposta, volendosi
applicare, anche solo per snobismo, all’apparato di note: Gioacchino Lanza
Tomasi delucida ogni riferimento, un lavoro erculeo. E correda i ricordi di una
genealogia Corbera Filangeri del Misilindino-Filangeri di Cutò Mastrogiovanni
Tasca di Almerita. Si può imparare, avendo pazienza, che Giuseppe Tomasi di
Lampedusa era pronipote di un Alessandro Filangieri che aveva due famiglie, una
adulterina con la soprano Teresa Merli Clerici – la nonna dello scrittore era
la figlia legittima. Che i Filangieri sono i figli di Angerio, cavaliere
normanno al seguito di Roberto il Guiscardo. Che Tomasi di Lampedusa in realtà
si chiama Tomasi e Mastrogiovanni Tasca Filangeri di Cutò – in seconda battuta
11° principe di Lampedusa, 12° duca di Palma, barone di Montechiaro, barone
della Torretta, grande di Spagna di I classe.
A Alessandra Wolff Stomersee
Balbi, la moglie dello scrittore, che pure aveva qualche titolo, Gioacchino non
ne dà nessuno, una commoner.
A un certo punto ricorre il
principe Francesco Ruffo di Motta Bagnara, nonno della nonna paterna di
Gioacchino Lanza Tomasi, Luisa Sarah (poi sposa di un Lanza), che ha sposato
una Filangeri. Quindi Gioacchino Lanza Tomasi in qualche modo era già del
casato Tomasi di Lampedusa.
Il racconto “I gattini ciechi” si
segnala perché la borghesia è sempre quella, in Sicilia, della “robba”, vista
da destra e vista da sinistra, da Verga e Pirandello come da Tomasi di
Lampedusa. Da questi con una speciale ottica, ancora settecentesca. Che le note
caratteriali e gli interessi letterali che GLT segnala confermano: il “Gattopardo”
è ancorato al mondo prima della Rivoluzione. Al Goethe della ballata “Il re di
Thule” mentre prepara il “Viaggio in Italia”, e al Mozart giovane, che si
prepara, in Italia, al “Flauto magico”- “Come diceva Giuseppe: erano i tempi
più alti della civiltà umana”. Con un soprassalto, dopo, per D’Annunzio: una passione, attesta GLT – che
risate invece di Carducci.
Racconti a parte – e interesse
precipuo dell’edizione – sono in effetti le note e le introduzioni di GLT, sui
tempi, i luoghi, l’evoluzione delle scritture, sulle loro vicende editoriali.
L’introduzione a “Lighea”, qui intitolato “La sirena”, dà conto dell’estremo
interesse dei Tomasi di Lampedusa per la scomparsa di Majorana, il fisico, che
quindi il principe aveva semplicemente adattato al suo personaggio, ellenista
principe e senatore, sdegnoso, La Ciura.
GLT testimonia anche l’avidità
dei Savoia come percepita da Tomasi di Lampedusa. E quindi dell’unità come
processo abusivo. Tomasi è con i suoi una sorta di nobiltà nera, che di tutti i
misfatti fa capaci i Savoia: nella fattispecie che Umberto I concepisce lo stato
come “patrimoniale”, con “affidamenti” (tangenti) su ogni appalto pubblico. C’è
anche “l’arroganza del Parlamento dei generali piemontesi”. In un caso, amava
raccontare, di un personaggio minore della dinastia, su cui il Parlamento dei
“generali piemontesi” era chiamato a indagare in segreto, in commissione, si
arrivò a due possibili motivi di incolpazione: o l’interesse o l’omosessualità.
L’aneddoto (wicked joke), termina col
presidente della commissione, “un generale piemontese per l’appunto” che
conclude: “Noi siamo per il culo”. È lo spirito oggi al Sud degli ex fascisti
neo leghisti.
Un’ottima edizione, che fa venire
voglia di altro (naturalmente buttata via dall’editore, che in quarta richiama cone
un invito quella che nel testo è una deprecazione – “Il riccio deve sapere
anche di limone, lo zucchero anhe di cioccolata, l’amore anche di paradiso”, per
dire che no, non va bene: “Voialtri, sempre con i vostri sapori accoppiati!”
Tomasi di Lampedusa, I racconti, Feltrinelli, pp. 197 € 9
La riedizione dei “Racconti”
dell’autore (postumo) del “Gattopardo” si fece a suo tempo, cinque anni fa,
perché si poteva disporre nell’integralità dei “Ricordi d’infanzia”, la parte più
estesa della raccolta – collaziona anche i tre racconti della prima edizione:
“Lighea”, “La gioia e la legge” e “I gattini ciechi”, l’ultimo scritto
dell’autore del “Gattopardo”, marzo-aprile 1957. La vedova era intervenuta
pesantemente nella prima pubblicazione, 1961, dice Gioacchino Lanza Tomasi, che
ha voluto la riedizione e l’ha curata con la moglie Nicoletta Polo, sui
“Ricordi” – aveva anche cambiato il titolo dei “Gattini ciechi” in “Il mattino
di un mezzadro”: questa riedizione è più lunga di un buon quarto. E in effetti
un altro Tomasi di Lampedusa emerge, ma non più allettante.
Tomasi, dice il figlio adottivo
ed erede Gioacchino, è un autore in
progress, a mano a mano che se ne decifrano le carte, “la sterminata mole di
libri e carte sparsi nel palazzo di via Butera”. Decise di “scriversi” dopo la rilettura di
“Henry Brulard”, i “Ricordi di egotismo” di Stendhal. Ma questi “Ricordi”,
tanto dettagliati quanto acritici, ne fanno un non affascinante passatista,
prigioniero di un’infanzia perduta per inettitudine di generazioni, compresa la
paterna e la sua. “I genitori dello scrittore vissero soprattutto sulla dote di
Beatrice”, annota di passata Gioacchino, della madre dello scrittore - e non
seppero gestirla, disperdendola in liti giudiziarie e in rendite pubbliche
rimborsate alla fine della guerra in lire svalutate.
L’apertura è promettente. Tomasi
ha perduto la casa della vita e dei sogni nei bombardamenti del 1943, e ora non
ne ha più una: “Tutte le altre case (poche del resto, a parte gli alberghi)
sono state dei tetti che hanno servito a ripararmi dalla pioggia e dal sole, ma
non delle CASE nel senso arcaico e venerabile della parola. Ed in specie quella che ho adesso, che non mi piace affatto, che ho
comperato per far piacere a a mia Moglie e che sono stato lieto di intestare a
lei, perché veramente essa non è la mia casa”.
Molto diretto. Ma i ricordi sono
poi degli ultimi fuochi del feudo, che la borghesia smantellava assecondandone
i complessi di superiorità: servitù, banchetti, e debiti. Della Madre e del
Padre maiuscoli, tanto quanto inetti. Arrivando a Santa Margherita del Belice,
al palazzo con trecento camere, il paradiso della Mamma e quindi della sua
propria infanzia, Giuseppe nota “lo smisurato paesaggio della Sicilia del
feudo, deserto”, ma nulla più, è solo una notazione geografica. Si leggono
questi ricordi, così autogratificanti, perfino esaltati, come lacerti di un
tempo e una storia non gloriosi. Di un’incapacità, non di un destino avverso.
Perfino ottusa.
L’interesse si sposta, volendosi
applicare, anche solo per snobismo, all’apparato di note: Gioacchino Lanza
Tomasi delucida ogni riferimento, un lavoro erculeo. E correda i ricordi di una
genealogia Corbera Filangeri del Misilindino-Filangeri di Cutò Mastrogiovanni
Tasca di Almerita. Si può imparare, avendo pazienza, che Giuseppe Tomasi di
Lampedusa era pronipote di un Alessandro Filangieri che aveva due famiglie, una
adulterina con la soprano Teresa Merli Clerici – la nonna dello scrittore era
la figlia legittima. Che i Filangieri sono i figli di Angerio, cavaliere
normanno al seguito di Roberto il Guiscardo. Che Tomasi di Lampedusa in realtà
si chiama Tomasi e Mastrogiovanni Tasca Filangeri di Cutò – in seconda battuta
11° principe di Lampedusa, 12° duca di Palma, barone di Montechiaro, barone
della Torretta, grande di Spagna di I classe.
A Alessandra Wolff Stomersee
Balbi, la moglie dello scrittore, che pure aveva qualche titolo, Gioacchino non
ne dà nessuno, una commoner.
A un certo punto ricorre il
principe Francesco Ruffo di Motta Bagnara, nonno della nonna paterna di
Gioacchino Lanza Tomasi, Luisa Sarah (poi sposa di un Lanza), che ha sposato
una Filangeri. Quindi Gioacchino Lanza Tomasi in qualche modo era già del
casato Tomasi di Lampedusa.
Il racconto “I gattini ciechi” si
segnala perché la borghesia è sempre quella, in Sicilia, della “robba”, vista
da destra e vista da sinistra, da Verga e Pirandello come da Tomasi di
Lampedusa. Da questi con una speciale ottica, ancora settecentesca. Che le note
caratteriali e gli interessi letterali che GLT segnala confermano: il “Gattopardo”
è ancorato al mondo prima della Rivoluzione. Al Goethe della ballata “Il re di
Thule” mentre prepara il “Viaggio in Italia”, e al Mozart giovane, che si
prepara, in Italia, al “Flauto magico”- “Come diceva Giuseppe: erano i tempi
più alti della civiltà umana”. Con un soprassalto, dopo, per D’Annunzio: una passione, attesta GLT – che
risate invece di Carducci.
Racconti a parte – e interesse
precipuo dell’edizione – sono in effetti le note e le introduzioni di GLT, sui
tempi, i luoghi, l’evoluzione delle scritture, sulle loro vicende editoriali.
L’introduzione a “Lighea”, qui intitolato “La sirena”, dà conto dell’estremo
interesse dei Tomasi di Lampedusa per la scomparsa di Majorana, il fisico, che
quindi il principe aveva semplicemente adattato al suo personaggio, ellenista
principe e senatore, sdegnoso, La Ciura.
GLT testimonia anche l’avidità
dei Savoia come percepita da Tomasi di Lampedusa. E quindi dell’unità come
processo abusivo. Tomasi è con i suoi una sorta di nobiltà nera, che di tutti i
misfatti fa capaci i Savoia: nella fattispecie che Umberto I concepisce lo stato
come “patrimoniale”, con “affidamenti” (tangenti) su ogni appalto pubblico. C’è
anche “l’arroganza del Parlamento dei generali piemontesi”. In un caso, amava
raccontare, di un personaggio minore della dinastia, su cui il Parlamento dei
“generali piemontesi” era chiamato a indagare in segreto, in commissione, si
arrivò a due possibili motivi di incolpazione: o l’interesse o l’omosessualità.
L’aneddoto (wicked joke), termina col
presidente della commissione, “un generale piemontese per l’appunto” che
conclude: “Noi siamo per il culo”. È lo spirito oggi al Sud degli ex fascisti
neo leghisti.
Un’ottima edizione, che fa venire
voglia di altro (naturalmente buttata via dall’editore, che in quarta richiama cone
un invito quella che nel testo è una deprecazione – “Il riccio deve sapere
anche di limone, lo zucchero anhe di cioccolata, l’amore anche di paradiso”, per
dire che no, non va bene: “Voialtri, sempre con i vostri sapori accoppiati!”
Tomasi di Lampedusa, I racconti, Feltrinelli, pp. 197 € 9
venerdì 23 aprile 2021
Ombre - 559
Fanno soldi a sei e sette cifre a colpo
i leader politici non più in attività, oppure in pausa, con presenzialismi, discorsetti,
manate, e qualche lobbying: Matteo
Renzi e Janet Yellen (oggi ministro del Tesoro di Biden) sulle orme di Hillary Clinton,
Gerhard Schröder, Tony Blair, David Cameron. Suscitando sconcerto, nota Fubini
su “7”, come se si approfittassero della fede pubblica. Ma non è peggio - cinque sui sei (ex) leader politici in affari non sono di sinistra?
“Le
Regioni all’attacco”, tuoni e fulmini: il governo si prenda l’impopolarità
delle misure restrittive, così che i “governatori” possanp farsi belli paladini
dell’apertura. È come al punching-ball. Bisognerebbe chiedere conto ai “governatori”
delle tante vittime della pandemia, per la disorganizzazione della loro sanità.
Fra
i protestatari Giovanni Toti, 52 anni, presidente della Liguria, vorrebbe “liberi
la sera almeno il 9 maggio”: “Penso al 9 maggio, la festa della mamma, una data
simbolica per farci un regalo”. Il giovane Toti è stato “delfino” di Berlusconi,
per 40 giorni ha anche gestito Forza Italia.
“Il
giudice Piero Gamacchio, fra i più stimati a Milano, va in aspettativa anticipando
la pensione già prevista a luglio”, Luigi Ferrarella, “Corriere della sera”. Motivo:
non pagava i conti al ristorante.
E
gli altri giudici meno stimati di Gamacchio?
Non
solo i conti al ristorante, il giudice Gamacchio non restituiva i prestiti. E
depositava le sentenze in ritardo – è stato anche “sanzionato per questo”. Ma è
un eroe per Ferrarella – a lui gli basta che il giudice Gamacchio abbia condannato
Craxi. I giornali sono inappetenti anche perché fatti dai cronisti giudiziari,
secondo le loro convenienze cioè.
Il
“Corriere della sera” intervista l’onorevole Anna Macina, sottosegretaria alla
Giustizia, per dire che Giulia Bongiorno,
in veste di avvocato della ragazza (o sono due?) che accusa di stupro un figlio
di Grillo ha compiuto atti illegali, diffondendo “atti del processo”. Bongiorno
annuncia querela e il “Corriere della sera” ritiene chiusa la questione, pubblicandone
l’annuncio. Ma tutto si può dire allora sui giornali?
Nell’evento
si scopre che è sottosegretario alla Giustizia, e intervistata in pompa sul
maggiore quotidiano, un piccolo avvocato che non riuscì a farsi eleggere al suo
paese, Erchie, nemmeno al consiglio comunale. In questo senso la Repubblica si può ben dire democratica, molto.
Florentino
Perez, aduso in Spagna a tutti i favori, il segreto dell’oro disse di aver
trovato. Alberto Agnelli, che molti debiti avea e poche entrate, incantato gli
credette. Quella della Superlega di calcio sembra una favola di Esopo.
Grillo
lamenta il processo di due anni, mediatico, al figlio. Non ha torto. Ma non è
la sua giustizia, delle piazze? La
giustizia politica non ha padri, ma figli molti.
La
Roma gioca da un mese con punteggio da retrocessione – due punti in sei partite.
Ma non è questo che preoccupa i tifosi. I tifosi si aspettavano il Manchester
United, prossimo avversario della Roma in Europa, dove aveva umiliato Totti con
un facile 7-0, fosse squalificato per la partecipazione alla Superlega. Non
parlavano di altro. Si dice Schadenfreude, gioire delle disgrazie
altrui. Ma c’è altro? C’è solo marcio nel tifo.
Impressionante
il quadro (“I gioielli smarriti di Roma”) che “La Lettura” fa di Roma in abbandono.
Un elenco smisurato di “tesori divorati dall’abbandono e progetti annunciati e
mai partiti oppure partiti ma mai portati
a termine”: ritrovamenti d’epoca romana, testimonianze medievali, capolavori
rinascimentali, il Barocco, l’archeologia industriale, il contemporaneo. Un abbandono
di cui non si può nemmeno fare carico alla sindacatura Raggi: “Decenni di
occasioni perdute”. La Repubblica lavora alacremente, fra sperperi e rinvii, a
far pensare male di sé – la migliore Roma è ferma a Mussolini (anche il
catasto).
Stessa
imputazione per Salvini, assoluzione a Catania, condanna a Palermo – rinvio a
giudizio. Ma Palermo, il Procuratore Lo Voi che tanto ansiosamente rincorre la
promozione alla Procura di Roma, feudo del partito Democratico, ha mandato un
siluro a Salvini o gli ha alzato una palla?
In punto di diritto – ipotizzando a
Palermo dei giudici tedeschi, quelli italiani col diritto ci giocano, q.b. per
la carriera – Salvini non avrebbe rappresentato nella vicenda lo Stato ma solo suoi
pregiudizi politici. Lo Stato, addo’ sta? Lo Voi&Co sono fermi allo Stato etico,
un po’ fascista? Il ministro dell’Interno, eletto, di un governo votato dal Parlamento,
è lo Stato, cos’altro è.
Enrico
Letta, segretario del Pd, aveva celebrato in
anticipo la condanna di Salvini a Palermo inneggiando col capitano della
Open Arms, lo spagnolo Oscar Camps. Che fine ha fatto la “capi tana”, Carola
Rakete? Il Pd ha sempre bisogno di festeggiare con “capitani”? Che cosa?
“Ho
insegnato ovunque”, spiega a Gnoli il novantacinquenne Franco Ferrarotti,
“tranne la Cina: l’inquinamento avrebbe ucciso i miei polmoni malmessi”. La
verità è nei particolari. Specie in queste celebrazioni gloriose della festa della
Terra, del famoso patto di Parigi per l’aria pulita, primo sottoscrittore la
Cina.
“Sorvolo
per carità di patria sui colleghi che paragonavano Conte a Churchill. o che
raccontarono la favola surreale di un’Italia «modello mondiale» per la gestione
della pandemia”, Federico Rampini, “D”. Perché sorvolare, carità vorrebbe il
contrario.
E
Conte era disarmato – benché benvoluto nella buona massoneria. È – era – tutto nella
muscolatura del suo addetto stampa Casalino? Bastano un po’ di manubri, e di
pesi?
In punto di diritto – ipotizzando a
Palermo dei giudici tedeschi, quelli italiani col diritto ci giocano, q.b. per
la carriera – Salvini non avrebbe rappresentato nella vicenda lo Stato ma solo suoi
pregiudizi politici. Lo Stato, addo’ sta? Lo Voi&Co sono fermi allo Stato etico,
un po’ fascista? Il ministro dell’Interno, eletto, di un governo votato dal Parlamento,
è lo Stato, cos’altro è.
Enrico Letta, segretario del Pd, aveva celebrato in anticipo la condanna di Salvini a Palermo inneggiando col capitano della Open Arms, lo spagnolo Oscar Camps. Che fine ha fatto la “capi tana”, Carola Rakete? Il Pd ha sempre bisogno di festeggiare con “capitani”? Che cosa?