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lunedì 13 luglio 2015

Adescatrice femminista

Le bambine? Sono capricciose. Questi stereotipi sono, si penserebbe del machismo, quello che le bambine le espone quando non le uccide, e invece sono del femminismo. Dell’autocoscienza femminista. Che il genere, il suo proprio genere, vuole inattendibile: volgare, pretenzioso, vittimista. Capriccioso.
Sibilla Aleramo è morta santa comunista. Onorata personalmente da Togliatti e Nilde Jotti, con un posto d’onore all’Istituto Gramsci e carte bene archiviate, soprattutto l’interminabile e curatissima corrispondenza, all’Istituto stesso e di conseguenza alla Biblioteca Nazionale – onore quasi unico fra i contemporanei del Novecento. Ma fu romanziera e poeta di nessun rilievo postumo, la stessa “Una vita”, l’esordio fulminante nel 1906 di cui farà tesoro una vita, si rilegge posticcia e artefatta –il romanzo è considerato un classico del femminismo, ma allora di un femminismo posticcio e artefatto. Si volle e fu un personaggio, questo sì. Poteva indubbiamente piacere, ed ebbe molti amanti, questo sì. Almeno a sentire lei: tutto si basa sulla sua enorme corrispondenza, accuratamente catalogata, e sui suoi romanzi, tutti autofiction, romanzamenti di queste relazioni. E questa è tutta la storia.
Se non che Sibilla Aleramo è, dopo Pasolini, il solo scrittore del Novecento di cui si coltivi la memoria. Simone Caltabellota si è appena prodotto in un romanzo verità sul suo (breve) amore con Giulio Parise. Si ripubblica la corrispondenza con Dino Campana, uno dei tanti che Sibilla inseguì golosa – e, un po’meno, quella con Quasimodo, che era un freddo.. Si promuovono perfino convegni e celebrazioni. Questo è stato, e resta, il libro seminale del monumento. Non convinto per la verità. Cioè sì, ma ogni poche pagine ributtato indietro dalla materia, poco commestibile.
Donna assetata di vita, oppure opportunista? La caricatura della poetessa e della femminista  - se ne incontrano tante tuttora a Roma, sopratutto su marciapiedi della cittadella politica, tacco dodici, tra Montecitorio e il Senato? Donna libera, ma da se stessa lo fu mai? Al capitolo che ha scelto come iniziale, la preparazione all’incontro tanto vagheggiato con Mussolini, da cui vuole farsi nominare accademica d’Italia, de Ceccaty così la descrive – sui cinquant’anni: “È una donna graziosa ma dalle forme un po’ appesantite: si crede bella, e ha conservato in effetti una certa eleganza altezzosa, ma adesso è povera e avvilita dall’oscurità cui l’hanno condannata i suoi troppo numerosi voltafaccia politici e letterari, le sue infatuazioni amorose troppo affrettate”, affettate. Il secondo capitolo è intitolato “Lo stupro”, ma non si capisce di chi a chi. Forse del figlio abbandonato a balia, nato a nove mesi dal matrimonio, e mai più ricercato. Lei rincorrerà sempre gli uomini.
Più che dal personaggio, de Ceccaty sembra affascinato dai “rigiramenti”: l’insensibilità che diventa sensibilità, il fascismo antifascismo, il carrierismo dedizione. O dalla corrispondenza, che lei pratica  con costanza, e conserva – una documentazione che induce alla biografia, facile facile. L’unica storia filata senza rovesciamenti è quella degli amanti – de Ceccaty censisce una trentina di approcci. Si comincia con Felice Diamanti, letterato di Milano, che le dice: “Lei somiglia a un personaggio dei romanzi di Neera”, senza ironia, da una parte e dall’altra. Poi viene Giovanni Cena, che le inventa il nome d’arte, e la “fa” scrittrice, autrice nel 1906, a trent’anni, di “Una vita”, “un avvenimento letterario considerevole”, dice de Ceccaty, di cui vivrà per altri 54 anni. E in ordine cronologico: Lina Poletti, Vincenzo Cardarelli (che però è impotente), Giovanni Papini, per quanto brutto, pieno di sé, e ammogliato con una santippe, Joe Luciani, un giovane di 19 anni, lei di 36, che poi sarà farmacista e Tunisi, un’avventura molto romantica l’estate in Corsica l’anno di Papini, col quale di giorno continua a corrispondere furiosamente, Vincenzo “Franco” Gerace, un bibliotecario napoletano a Firenze, una relazione “delle più stolide che abbia mai vissute, motivata da una forte sensualità”, il bibliotecario non è di gran nome, Valéry Larbaud per un paio di notti, un gentiluomo che non le farà mancare successive attenzioni, sempre col garbato “voi”, Boccioni, Rebora, Cascella, Boine, Dino Campana naturalmente, il colpo meglio riuscito, alla cui storia resterà indelebilmente legata, per un rapporto di appena sei mesi, fecondo di niente, Federico Agnoletti, uno che aveva una moglie, tre figli e un’amante inglese, Raffaello Franchi, poeta di 16 anni, lei di 42, altro buon investimento, farà “Solaria”, Giovanni Merlo, altro giovanissimo, recluta ad Albano, amico di Rebora, ricchissimo questo (farà, ventenne, il mediatore di residuati di guerra), col quale passa le notti allo Hassler a Trinità dei Monti, Tullio Bozza, altro giovanissimo, Evola, Giulio Parise, giovane ma esoterico discepolo di Evola, “un gigolò mistico” lo dice de Ceccaty, uno che non si concedeva alle molte donne di cui figurava amante, faceva godere esibendo le sue bellezze nudo, il deputato socialista Zaniboni, che subito dopo attenterà a Mussolini, Enrico Emanuelli, altro giovanotto benché ottimo scrittore, e naturalmente Quasimodo, lei già di 60 anni, lui in cerca avida di riconoscimenti, impiegato del Genio Civile tra Reggio Calabria e Sondrio. La storia finale è con Franco Matacotta, un ventenne di Fermo che vuole fare il poeta – con l’aiuto del Partito ci riuscirà – e sarà lunga, piena di risentimenti, lui naturalmente si sposa a fa vita propria, non ultimo sull’edizione delle lettere con Campana, che Matacotta cura e poi contesta.
Pasolini sarà guardingo. Come già Proust, benché preso d’assalto. Fece la posta più volte a D’Annunzio, l’ultima a lungo, ospite del Vate in albergo a Gardone, che però non apriva le sue lettere appassionate. Ci tentò anche con Croce, che la trattò paternamente, rimproverandole l’abbandono del marito e del figlio - “Non faccio il moralista a buon mercato.. (ma ) non ho mai creduto alle giustificazioni ideali che avete dato di ciò nel vostro libro” – e si meritò, alla morte della moglie, un viperino “godeva con tutta Napoli, alle sue spalle”, alle spalle del filosofo.

Prezzolini, che era suo amico, l’aveva detta “levatrice sessuale della letteratura italiana”, e lei ha tenuto fede all’impegno. Da ultimo sarà accudita da Alfio Lambertini, pittore, e Adriano Vitali, poeta, “due ragazzi di trentacinque anni”, li dice de Ceccaty, “belli, forti”, comunisti, gay. E dal Pci, che le trova casa e la omaggia periodicamente su “l’Unità”, al premio Viareggio, e all’Istituto Gramsci, che tuttora ne cura la memoria, con nomi eccellenti, Sergio Solmi, Zavattini et al..
Che dirne? Scritto in francese venticinque anni per l’editore Julliard, col titolo “Nuit en Pays Étranger”, probabilmente come romanzo scandalistico, questo Sibilla” non è storia e non è romanzo - è una delle poche “Scie”, l’unica forse, non riprodotta negli Oscar. Colpa anche di de Ceccaty, che è innamorato del suo personaggio, ma non convinto. A volte anzi impietoso. Quando Mondadori stampò le sue poesie in volume, Sibilla ne mandò copia “agli amici parigini, tra cui Maurice Barrès, che lasciò la sua copia alla Biblioteca Nazionale, dove sono stato il primo a tagliarne le pagine”. Non è la sola perfidia. Di Aleramo sostiene di aver trovato la prima traccia “in «Descrizioni di descrizioni» di Pasolini. Parlando della corrispondenza Campana-Aleramo, egli deplora il fatto che «di un poeta come Dino Campana si sia impadronito la destra letteraria»”. Non lusinghiero, considerando che Sibilla era allora una colonna del Partito..  
De Ceccaty, editore, traduttore, studioso italianista di grande sensibilità, che ha lavorato molto proficuamente su Leopardi, Moravia, Pasolini, da ultimo anche Maria Callas, si pende per 400 pagine per virtualizzare un soggetto volgare. Salvo l’incidente iniziale, “Una vita” dal sen fuggita, se fu farina del suo sacco, la protomemoria femminista del 1906. Un esercizio di bravura, se si vuole, ma a ogni pagina irritante, come se lo scrittore e critico chiudesse gli occhi e si tappasse il naso. La scrittura è svogliata, nei lunghi dialoghi di cui ritiene necessario farcire la narrazione, addirittura ridicola. A meno che questa “vita” non sia involontaria, un’esercitazione “alimentare”, e al fondo cattiva, satirica.
Non c’è altra traccia della poetessa che una serie di adescamenti, non ne resta altro. Che Togliatti volle nobilitare, dopo Mussolini e la regina Elena, disponendone l’archiviazione, tanto accurata (non c’è autore del Novecento altrettanto curato) quanto inutile, e l’assunzione tra i santi del Partito, oggetto di culto quindi periodico.    
René de Ceccatty, Sibilla

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